Terza parte del libro “viva, viva Sant’Eusebio di Don Enzo Chiarini
Reverendo irriverente è la sintesi della descrizione che Filippo Lucci e Tiziano La Rovere fanno del prete che tanti tra i religiosi del clero e anche molti benpensanti facevano di quest’uomo “votato” più a far del bene che (spero di non essere sacrilego) che a dire messa . O meglio la messa lui la metteva nel costruire pozzi, scuole e strade in Burundi dove poi è morto improvvisamente .Filippo e Tiziano, ai quali vanno i miei ringraziamenti per aver accettato la pubblicazione su questo sito, hanno raccolto in un volumetto edito dalla DEPADU Abruzzo , che è poi l’associazione che ha raccolto l’eredità di Enzo, tre racconti del primo periodo di impegno civile e sociale , oltre che cattolico, del “Don”.
A CENA SI MANGIA …NON SI CONTESTI
Terzo racconto di “VIVA VIVA SANT’EUSEBIO – di DON ENZO CHIARINI
E’ notte. Senza luna e con i fari spenti non riesco a vedere neppure
i soldi, forse perché ancora non ci ho fatto l’occhio.
Un’idea, quella di spegnere i fari, non certo brillante ma, così, me n’è venuta la voglia e l’ho fatto. Ai tempi degli Assiri non l’avrei potuto fare.
La neve, ai fianchi della strada, costituisce una soffice barriera per le frequenti slittate che, a questo punto, risultano anche divertenti, quasi provocanti. Ma, dopo le Capannelle, accade ciò che da un pezzo andavo pronosticando, quasi desiderandolo.
Se non proprio felice, perlomeno sono lieto che questa vecchia 500, logora nervi e padrona, di portarmi a casa, all’ospedale o al cimitero, mi abbia piantato in asso in mezzo ad una strada, ma vicino a delle case, belle case per di più.
Per ripartire basterebbe spostare di una ventina di centimetri la vettura, ma io preferisco considerarmi bloccato da un specie di tor- menta, di quelle mai viste in Africa. Fuori, in mezzo al nevischio, sembro una sfida al cuore di quella gente che, nonostante i miei ri- chiami pubblicitari, cerca di convincersi d’essere stanca, di non aver tempo, che qualcuno in fondo verrà ad aiutarmi.
La mia delusione si fa grande quando, dopo ripetute segnalazioni,
un autista di passaggio passa oltre, indifferentemente.
Solo un secondo autista si ferma. Prima di ripartire, con un piede sull’acceleratore. Grido un mucchio di insulti verso quegli esseri insensibili affacciati alle finestre, chiamandoli animali, beduini.
Chiasso forse un po’ esagerato ma, devo pur raccontare qualcosa agli amici che mi aspettano in città. Ho fretta, non perché sia ve- ramente atteso, ma non tollero sentirmi dire d’essere arrivato in ritardo da gente a cui in fondo, poco importa se invece di arrivare in tempo, io cada tra i gamberi del fosso, fracassandomi la testa.
Si festeggia Peppino questa sera. La sua busta paga più che altro, anche se lui assicura che ne farà un impiego differente dagli altri. Da studente ha contestato anche il sole perché risplendeva indiffe- rente sulla testa dei più tetri conformisti. Una volta, non lo posso scordare, picchiò con irosa convinzione un collega che, non volendo
partecipare ad una manifestazione, asseriva di voler fare la rivo- luzione solo dopo aver trovato lavoro. “Con la polizia alle spalle protesterai tu brutto disgraziato”, gli urlò lui caricandolo come un crociato carica un infedele.
A dire il vero, eravamo in tre particolarmente dotati di zelo antisi- stema e persino le vacche ne sanno qualcosa. Solo l’amore lo abbia- mo fatto in maniera tradizionale. Il che poi non dice proprio niente, dato che in questo campo si sono avute tradizionalmente tutte le aberrazioni possibili. Ci dispiaceva di non poter trovare continui- tà storica tra l’infanzia stessa e le nostre esperienze universitarie. Ma non è che ci mancassero le capacità inventive per colmare tale vuoto. Dei fondamenti come ad esempio, il fatto che non avevamo sicuramente frequentato le scuole elementari e medie. Ma erano i particolari che sfuggivano ad una revisione degli avvenimenti.
Fausto la pensava meglio di tutti. Sosteneva infatti la palese con- traddizione tra l’inveire contro un fondamentale moro barbaro di condurre l’università e il continuare a frequentarla. Adesso gli do ragione anch’io , non solo perché non starei qui a rischiare il buio e l’insidia del gelo, ma soprattutto perché quando ero costretto a dimenare il pollice ai margini dell’asfalto, come stavo facendo, non avevo più il coraggio di dire il mio vero parere al grasso signore che con aria furbesca, quasi compassionevole, guardava il mio bizzarro abbigliamento.
I miei giubbotti variopinti tentavano invano di reagire contro il mo- notono ma potente grigio di quel benpensante o benestante che dir si voglia. Non valeva proprio la pena andare a scuola per umiliarsi fino a questo punto. A volte mi davo persino una lisciata ai lunghi capelli, quasi mi sarei tolto la barba nei momenti di maggiore fretta e urgenza, per poter più facilmente abbordare, come una puttana, le vetture più agili. Per poi gridare, una volta giunti a destinazione, obbrobri nei confronti di coloro che ci avevano gentilmente rimor- chiato.
La mia ‘500 intanto continua a slittare e quasi sto pensando, che l’anno prossimo a quest’ora, potrò avere una nuova macchina non di
lusso, ma più sicura e più stabile, che mi faccia risparmiare tempo, necessaria, inoltre, per facilitare i contatti con i gruppi, per coor- dinare meglio il lavoro. Un lavoro, in fondo, diretto a correggere la mentalità consumistica a gente che s’attende soltanto maggiori consumi, ma che, in ogni caso, la tiene occupata in ideali e passioni umanitarie di cui non è proprio da dire che se ne frega, non li capi- sce ancora, non sa ancora come utilizzarle, non è poi tanto semplice riuscire ad immaginare, che se ne possa fare una fonte di vita, con tutte le sue eccezioni. Solo Fausto non avrà la macchina nuova.
Mi ricordo il giorno in cui si laureò, persino i gatti si congratulava- no. “Ma Dottore, boia cane, non ci dice niente? Ma auguri, auguri”. Era la stessa vecchia coppia del primo piano che non aveva mai perso occasione per pronunciarsi molto pessimisticamente sull’esito della sua tesi di laura.
Era vero che invece di quattro ne aveva impiegato otto, di anni, per
finire gli studi, ma, secondo me, non aveva perso tempo.
Aveva assaporato tutto dalla vita, aveva speso i soldi del padre, li aveva spesi male, trascurando le lezioni, ma non qualcosa di più importante. Trascinato da una segreta angoscia, aveva frequentato gente che gliene aveva inasprito il tormento, imprigionandolo in un circolo vizioso da cui faticò tanto per non uscirne che a metà. Beveva per non andare a donne perché indebolito dal vino. Ormai non amava più i mezzi termini. Dalla vita si attendeva più degli altri, voleva tutto e ad ogni costo e la morte non si fece attendere.
I genitori erano preoccupati di mostrare chiaramente a tutti il loro immenso dolore. Dolore, in fondo, che non sarà mai stato un cen- tesimo del mio. Piansi tutta una serata come se avessi perso il mio più caro, unico amico, io, che forse neppure per la nascita avevo versato lacrime.
Era andato a ritirare il diploma di laurea. La festa l’avremmo fatta in un locale rustico, proprio da matti: Il programma era stato pre- parato con gioia meticolosa.
Non credo che procedesse molto veloce; ma fu per aiutare due ra-
gazzine, dicono, che andò a cozzare contro il camion. Era un camion
che trasportava le vetture al sud. Voleva sbarazzarsi di quell’inco- modo profeta che aveva promesso di buttar via la moto e di voler acquistare un asino, anche se avesse dovuto fare cento chilometri al giorno, per andare a compiere il suo dovere, dovunque fosse.
Lui ne era capace e il suo esempio sarebbe stato contagioso.
Fu colpito alla testa. Una di quelle grosse sbarre gliela divise in due parti; il suo cervello continua ad essere calpestato da decine di mi- gliaia di ruote veloci, irriverenti.
Il cordoglio dilagò come una peste; ma non provai neppure astio contro tale sfacciata ipocrisia generale. Il padre, tre giorni dopo la sepoltura, dopo la solenne messa “trigesimo die”, dichiarava che non avrebbe mai accettato la somma offertagli dall’assicurazione.
Neppure se si fosse trattato d’un cane sarebbe stata decente un’of-
ferta del genere.
Il funerale costò molto denaro: fiori tredicimila lire, crocifero mille, portatori di corone tredicimila, accompagnamento e santa messa tremilacinquecento, diritti di chiesa cinquemila, trasporto, cassa da morto, loculo, manifesti e altre spese, seicentomila.
Un gran bello spettacolo però. Almeno morendo aveva accontentato numerose persone a cui in vita aveva fatto paura, infastidendo il loro amore per la pace e la tranquillità. Solo le ragazze mancavano tra coloro che scuotevano la testa dispiaciuti. Desolate per simile immatura partenza. Vuoto molto comprensibile, d’altronde , dato che Fausto aveva frequentato solo puttane, rendendo tali quelle che non lo erano. La sua pretesa infatti era di trovare una fanciulla che opponesse una forza d’amore alla sua violenza sessuale.
Adesso è morto; più nessuno gli comprerà l’asino per spostarsi da un luogo all’altro; più nessuno l’approverà o deriderà come quando asseriva che è più dignitoso accarezzare un animale piuttosto che un ammasso d’acciaio.
Sta chiuso laggiù a sinistra, tra i loculi dei primi piani, quelli più costosi. I fiori non mancano mai e neppure le messe, di quelle messe che lo facevano rabbrividire quando era ancora in vita.
Secondo quanto diceva lui, esse sono perniciosamente tendenziose.
Pretenderebbero, cioè, che un libretto di banca, sporco di denaro, passato per mille inesorabili mani, costituisca un lasciapassare per una situazione di privilegio anche là dove, assicurano, vi sia il regno della giustizia.
Ora tace; non lo sentirò più durante le assemblee, arrogante e pre- ciso con i professori, gendarmi e compagni. Il suo cervello ha pro- curato refrigerio alle molte gomme striscianti sull’asfalto.
Sono passati quasi tre anni. Ma egli è ancora testardamente pre- sente, se non altro, come conforto o come tormento da parte dei molti che lo conobbero. Fausto c’è ancora perché aveva sconfitto l’angoscia di porre fine ai propri giorni. Perché nulla aveva rifiutato alla vita. Neppure se stesso, la sua onorabilità, il suo modo usuale, cioè, di marcire come cadaveri ungo le strade dell’esistenza, portati a spalla da quattro abitudini ancestrali.
Me ne andai disgustato quando mi si rese insopportabile il non potermi più sfogare con lui la sera. Non potergli dire che odiavo un certo modo di fare baccano, magari in fuoriserie.
Una fuoriserie che costa diecimila vite umane e che corre su cen- tomila ventri annacquati, corrosi dai vermi? Non potevo restare e partii. Approfittai d’una legge speciale, d’un organismo interessato più che altro ad una tale scappatoia e mi posi discrezione di persone ben intenzionate. Facendo il giro dei libri storici, non ho trovato un personaggio mal intenzionato. Hitler stesso, ad esempio, voleva purificare e deificare l’umanità quasi al pari di Cristo, pur con mez- zi differenti. Parimenti questi cotali a cui mi affidai, che intendono redimere l’Africa e, non riuscendovi da soli, chiamano aiuti d’ogni specie, e da ogni parte.
Io figuravo obiettore di coscienza ma è certo che non avrei osato quanto Fabrizi o Mohamed Alì. Imparare nuove lingue, conoscere nuovi costumi, mangiare noci di cocco a bon mercato, dimentican- do i sedici mesi di pasta asciutta, come dicono i polentoni del nord, o il periodo di diseducazione civile e scuola della masturbazione, come scrissero dei giovani americani, non è poi rischiare granché. Non mi davo arie da eroe; ciò che mi accingevo a fare era infatti
evidentemente insolito.
Pontificare sarebbe stato per i più un gradito invito a ridimensio- narmi. Partii così, come se si trattasse d’un normale viaggio.
Gli amici, però, non si lasciarono sfuggire l’occasione e organizzaro- no una manifestazione contro il servizio militare, previo permesso della questura. Lo slogan più ricorrente era che detto servizio va riprovato perché obbligatoriamente indirizzato al servizi del più forte.
Può anche darsi che non avessero tutti i torti; ma sta di fatto che i militari ci sono ancora nel mondo. Molti di essi infatti, dopo quella vibrata protesta, partirono pacifici per i mesi di pasta asciutta ad apprendere l’arte d’essere sempre disposti a difendere la patria, gli interessi della patria, i proprietari di tali interessi.
L’ultima guerra, scrisse un tale, non ha colpevoli perché le respon- sabilità sono scaricate sopra un solo individuo il quale, a sua volta, essendo stato dichiarato pazzo, non è imputabile di alcun reato.
Peccato che i medici si siano pronunciati su tale individuo solo dopo la sua morte, non potendo così evitare che milioni di soldati ritenessero in virtù di obbedirgli.
Ai tempi delle crociate neppure io avrei osato obiettare qualche cosa contro tali barbarie per il fondato timore del rogo. Si, perché si protesta solo contro chi si può fare oggetto di protesta.
Non si può ad esempio toccare il potere, o meglio la fonte di tale potere, che dicono sia il denaro e i sistemi convenzionati per co- dificare tale situazione. Perlomeno non lo si fa mai impunemente. Fausto ne sa qualcosa. Ha voluto agire secondo coscienza e ci ha rimesso la testa. Purtroppo non sempre si ha la fortuna d’avere una coscienza come la sua per qualcosa non desiderabile.
Che ognuno agisca “secondo coscienza “. Perché nel suo nome, sono stati commessi crimini senza fine.
Per me la situazione era differente. Più che secondo coscienza agivo secondo istinto.
All’aeroporto sembravo un gran personaggio con tutto quel codazzo
di accompagnatori. In volo invece erano più sincere le gambe che
i sorrisi delle signorine addette a rendere gradevole l’insolito e co- stoso viaggio. Col vicino di poltrona non attaccai subito bottone e così non riuscii più a prendere contatto. Otto ore di volo in silenzio, con gli occhiali da sole e facendo finta di leggere o di guardare giù dal finestrino.
L’ “hostess”, più bella quando scese a terra, mi apparve una come le altre e mi davo del cretino per averle dato eccessivamente impor- tanza quando eravamo tra le nuvole. Andava cercando attenzione dappertutto, meravigliata e stizzita che non ci fosse abbastanza gen- te ad accordargliela. Per fortuna la sua vita non si svolge solo terra terra!
Oltre gli imprevisti dell’acclimatazione, non sapevo come reagire alle impressioni dei primi giorni. Mi irritava il fatto che gli indigeni mi chiamassero “zungu”, cioè bianco. Pareva che mi dicessero zin- garo. Un intruso in più, venuto in mezzo a loro, forse per rendere più umiliante la vita.
Povertà. Quando erano in gruppo, si sentivano forti e mi ridevano in faccia; anche i sudici brandelli dei loro abiti parevano feroci sog- ghigni.
Quando passavo in automobile, scappavano al solo vedermi.
I bambini piangevano e nella loro fuga mi vedevo come un inviato dal re cristianissimo di Spagna, Portogallo, o d’Olanda, incaricato di raccogliere braccia da portare in America. Mentre i teologi, in Europa, ponevano la questione circa l’esistenza o meno dell’anima in loro.
Nel dubbio, la condivisione più vantaggiosa è di chi possiede, dice il diritto canonico. E allora, anima o no, si poteva procedere con coscienza tranquilla a dissodare le terre consacrate a Cristo.
Con il sudore della gente, che cantava sotto la frusta del sole e del sorvegliante. Cantava perché non voleva dimenticare la capretta e la vacca, abbandonate sulle colline di Muramvia. Chi le avrebbe condotte alla pianura durante la stagione secca? A simile pensiero pesanti lacrime avranno solcato il viso nero di quelle anime candide. Tutte le mie idee antirazziste venivano messe a dura prova quando
mi rubavano qualcosa o mi sentivo da loro rifiutato. In fin dei conti la mia ira era ingiustificata perché anche loro potrebbero rubare, molto onestamente, milioni come tanti altri. Invece di rischiare so- nore bastonane e fama di ladri incivili a motivo d’una semplice birra.
Ammetto molto onestamente che il mio servizio civile ha recato un autentico servizio a tante mie idee. Il padre missionario andava a portare la comunione all’ammalato in camionetta. Chi di loro aveva mai visto un dio così potente? Restare pagani, il più delle volte, vuol dire eroismo di fedeltà alla propria coscienza.
La somma dei contrasti erano però concentrati nella capitale.
Un paio di occhiali dorati, due scarpe a punta, un’ex camicia milita- re e via alla ricerca dell’effetto, ignorando che per diventare davvero come certi bianchi occorre apprendere bene la loro arte di guada- gnare, facendo profitto a carico altrui. Oggi non lavorano più nei campi di cotone d’oltre mare ma nelle pianure indigene, sulla riva degli infestati corsi d’acqua o lungo le strade, trasportati esultanti, come se andassero ad una festa, sopra carri di bestiame.
Con il denaro guadagnato durante la stagione di lavoro, dopo aver prodotto una tonnellata di cotone, potrebbero acquistare una cami- cia giunta fiammante dall’Europa, in cambio della materia prima. Egli però, il nero, preferisce avere la sua birra come ricompensa giornaliera. Perché vuol cantare la sera. Ora la capretta e la vacca non sono così lontane come cento anni fa e la camicia la potrà com- prare d’occasione al mercato.
Se vuole la potrà avere anche stendendo a più riprese le mani agli
organismi di beneficenza che praticano e predicano la carità. Come se questa fosse qualcosa di estraneo alla giustizia.
“Oggi è finita la schiavitù, mi diceva un tecnico europeo, accompa- gnandomi con la jeep nei suoi cantieri di lavoro. I neri di oggi stri- sciano spontaneamente e volentieri ai nostri piedi, pur digrignando i denti in certi momenti di crisi. Con dieci birre ti paghi dieci operai al giorno e rischi di passare per gentiluomo umanitario se non li calpesti quando li incontri per la strada. E’ finito il colonialismo.
Oggi c’è lavoro per tutti quelli che ne hanno voglia. Al colmo della ferocia, per un’opera che richiede la presenza di tre operai, ne in- gaggiano dodici, per sbuffare con l’indice teso perché non hanno voglia di fare niente!
Gli arabi sono ancora presenti. Ma non vanno più a cavallo con frusta in mano per razziare gli indifesi indigeni. Oggi collaborano in maniera corretta, secondo le disposizioni vigenti. Ad ammansire la popolazione hanno sempre provveduto le missioni, senza le quali facilmente l’Africa sarebbe rimasta sempre nera.
Relativamente vicino alla nostra scuola d’arte c’era una specie di collegio dove erano raccolte delle ragazze che, oltre a dare motivo dell’invio di offerte extra – continentali, occupavano il tempo di re- ligiose in attesa di menopausa. Di notte, dopo lunghe recite serotine di preghiere e rosari, le internate non resistevano al richiamo del maschio e saltavano il muro, mentre le monache ai piedi del Sacro Cuore, cercavano di colmare il loro vuoto d’amore.
I nostri allievi, invece, avevo la vaga impressione che ci odiassero cordialmente. Non riuscivano a rendersi conto del perché della no- stra fortuna, della nostra condizione di superiorità, a parità peraltro di intelligenza.
Io credo fermamente che gli africani non impareranno che il lavoro è una necessità, un onore, fino a quando un missionario, un obiet- tore di coscienza e un assistente tecnico saranno con il campanello in mano, pronti a chiamare il boy anche per farsi grattare il sedere. L’esperienza africana m’è servita molto, anche se Peppino insiste nell’affermare che è servita solo a rovinarmi. Fausto non si pronun- cia mai. Ma questo silenzio, pur agghiacciandomi le vene, non mi dà la forza di reagire in maniera differente. Sono troppe e molteplici le informazioni ricevute da numerose esperienze!
Ormai sono a pochi chilometri dalla città. Non so che cosa hanno preparato per festeggiare la promozione del mio amico.
Temo che adesso con i saporiti ed enormi bocconi, messigli disposi- zione dall’amministrazione comunale, non avrà più tanta felicità di parlare e soprattutto di parlare chiaro, con voce distinta.
Poi non è neppure educazione parlare a bocca piena. Bisogna sciac- quarla con un po’ di buon vino, fare una buona siesta e dopo si vedrà. Certo il vocabolo più facile a pronunciarsi dopo simili pre- messe di bocca sazia resta sempre: popolo.
Del popolo infatti noi ci occupiamo. Con tutti i mezzi noi tentiamo di inculcare loro il desidero di mete più alte rispetto alle loro pos- sibilità. Preoccupati che partecipino tutti al bottino generale, rica- vato dal rapporto tra il più forte e l’indifeso, siano individui, siano nazioni. Peppino certamente anche stasera mi romperà il cordone ombelicale con i racconti delle sue prodezze, ancora più colorite ed esaltanti perché perpetrate durante la mia assenza.
Mi citerà ancora pezzi di giornale, foto su riviste. Ma quello che più mi seccherà sarà l’approvazione incondizionata degli altri amici a tutte le sparate, più o meno attendibili, che egli reciterà.
Non è che non ci voglia credere o che non sia stato vero il suo fa-
natico ottimismo. Ma non mi interessa.
Doveva rifiutare il posto che gli hanno furbescamente accordato. Non doveva dare un esempio di così flagrante prostituzione, alle mie decisioni che sono divenute rassegnazioni. Si capisce.
Io gli sorriderò fraternamente solidale, quando mi assicurerà che la sua nuova busta paga sarà sempre adisposizione, non giuridicamen- te si intende, del nostro comune impegno.
Arriverà persino a dire che la nuova situazione lo aiuterà a romper con più efficacia dall’interno. Che niente gli impedirà d’essere libero come una volta. Può darsi che si sposi presto e non so se Gabriella continuerà a dar finta d’appoggiarlo in tutte le sue imprese anche dopo il matrimonio. Penso, temo anzi, che d’ora in poi sarà molto più semplice per lei un più facile e sincero sostegno. Specie se suo marito, impiegato, aumenterà di peso. Dopo la cena, penso che avrò fatto ridere parecchia gente come al solito con le mie trovate. Sarò senz’altro ubriaco. Nessuno può prevedere che cosa dirò durante gli ultimi brindisi. Posso dire solamente che sono sempre stato spietato. Forse anche stasera romperò con qualcuno a causa delle mie crudeli, veritiere ammissioni.
Se resterò solo, se mi cacceranno con buone maniere, costretto ad appoggiarmi ad un palo della luce, sono certo che mi consolerò pen- sando che presto anch’io avrò un impiego come si deve.
Che guadagnerò più denaro e che, in fondo, Peppino mi è amico. Ma la verità è ancora più amica. Sì, perché quando si è ubriachi, oltre ad essere più sinceri, si è anche solenni. Al matrimonio, cer- to, non ci penserò neppure se avrò bevuto una cantina di Chianti. Nessuna pianta s’avvicina ad un’altra per sostenerla o per puro di- sinteresse. L’una o l’altra è parassita mi diceva Fausto, la buonanima, sempre misogino.
Ma ormai sono arrivato. Il locale traspira un aria di festosità.
Si sente musica, profumo di arrosto e risate argentine di ragazze in minigonne, come si spera. Una lisciata ai capelli come ai tempi di difficile autostop, una ripassata al discorsetto finale: “Cari amici, vi illudete, il povero d’ogni mondo, non vuole l’uguaglianza, la fratel- lanza. Vuole riempirsi la bocca meglio degli altri come fa Peppino. Non vuole essere libero di accarezzare un asino come voleva Fausto”. Ma forse non dirò niente di tutto questo. Ecco infatti che Peppino, riconosciuto il tipico rumore della mia piccola ma fragorosa vettura, corre ad abbracciarmi fraternamente. Stavano aspettando proprio me per incominciare a mangiare e, a cena, si mangia non si contesta.