Sostiene Mario Giunco: quei “birboni” dei briganti

Giovanni Piccioni, di Valle Castellana,  era un fanatico dei Borboni. Un guerrigliero.  Aveva il carisma del capo e vecchio guidava una banda di armati, che, dalla base di Civitella del Tronto, taglieggiava il teramano, dal 1815 fino alla resa del forte (20 marzo 1861). Il Parlamento era riunito a Torino e l’ultimo baluardo borbonico ancora resisteva. Ferdinando Petruccelli della Gattina (1815-1890), patriota di lungo corso e giornalista dalla lingua tagliente,  chiamò i neo parlamentari (tra cui il senatore Giuseppe Devincenzi) “moribondi di palazzo Carignano”. Leonardo Zilli, di Campotosto, era cappellano di Civitella e consulente (non solo spirituale) dei briganti.

I piemontesi lo misero in un forno. Acceso, naturalmente. Berardo Stramenga,  di Campli, saccheggiò il suo paese natale (24 ottobre  1860) e, negli anni successivi, condannato in contumacia dalla Corte criminale,  fece evadere dal carcere di Teramo tutti i detenuti, non solo quelli per reati politici. Continuò nelle sue imprese fino al 1865, quando lo Stato e il Papa firmarono una convenzione per la reciproca estradizione dei fuorilegge.

Lo scrittore Fedele Romani (Colledara, 1855 – Firenze, 1910) è un testimone d’eccezione nel suo delizioso libro di ricordi “Colledara”  (1907): “La minaccia dei briganti si faceva intanto sempre più vicina e terribile. La banda era composta per lo più di persone delle provincie più meridionali, che erano venute avanzando a poco a poco, per i monti, verso l’Abruzzo, e ad essi s’erano aggiunti via via non pochi elementi indigeni. Dai monti essi irradiavano, secondo l’opportunità, la loro azione, qua e là nelle contrade più vicine; e dato il colpo, si ritiravano pronti, guidati da esperte guide, nei cupi avvolgimenti dei boschi e degl’inaccessibili dirupi.

Essi per lo più agivano per mezzo di ricatti. Sorprendevano e portavano con sé il capo di casa: poi mandavano a chiedere alla famiglia una data somma, proporzionata alla riputazione di ricchezza che essa godeva”. Non infrequente il ricorso a mezzi più crudeli di persuasione: “Fatti più arditi dalla paura altrui e dalla buona fortuna, assalivano le case, le saccheggiavano, le incendiavano. E oltraggiavano, ferivano, torturavano, uccidevano le persone che cercavano di opporsi ai loro atti nefandi, che non volevano dar denaro, o non volevano rivelare dov’esso fosse nascosto, o che, semplicemente, si rifiutavano di gridare ‘Viva Francesco II!’ perché quei manigoldi, nonostante che non fossero veri e propri assassini, volevano innalzare e in un certo modo nobilitare il loro carattere, facendo le viste di combattere per un principio politico.

Certo, come si sa dalla storia, l’ex Re di Napoli era in relazione coi capi briganti e faceva loro buone promesse e forniva denaro; ma quelli erano briganti di alta reputazione e non brigantucoli, come quasi tutti quelli che infestavano, in quel tempo, le mie contrade”. Segue la descrizione di una delle torture preferite, che consisteva nel  “pillottare, come si fa con l’arrosto perché venga ben rosolato, le parti posteriori dei poveri infelici che essi credevano denarosi e che spesso non erano tali. Legavano le vittime su di una tavola in modo che stessero immobili e bocconi, e poi, tenendo in mano uno spiedo sulla punta del quale era infilato un grosso pezzo di lardo avvolto con carta e acceso, facevano piovere, su quelle disgraziate carni ignude, stridenti furiose gocce di strutto infocato. Immaginarsi gli urli e lo strazio degl’infelici, che spesso non avevano modo, essendo veramente privi di denaro, di far cessare, rivelando il nascondiglio, quella selvaggia e miseranda tortura”.

Altri particolari completano la rievocazione: “Singolare era l’odio che i briganti avevano per i baffi: i baffi erano segno evidente di liberalismo. La foggia della barba, dei cappelli e delle cravatte è stata sempre il mezzo più economico e più sicuro per far sapere agli altri le proprie opinioni politiche. Guai a coloro che, all’arrivo dei briganti, non avevano avuto tempo di levarsi i baffi: c’erano di quelli che portavano a questo scopo sempre un bel paio di forbici in tasca: solo così si sottraevano  allo strazio di sentirseli svellere, tra feroci sghignazzate, pelo per pelo”. Il brigantaggio postunitario fu una “guerra civile”? Un conflitto fratricida di meridionali contro meridionali? Una “lotta di classe” fra proprietari e contadini senza terre? Il giudizio degli storici è ancora sospeso.

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