QUANDO DE AMICIS S’IMBARCO’ CON GLI EMIGRANTI
Non mancavano gli abruzzesi sulla nave che, nel 1884, partì da Genova per l’Uruguay e l’Argentina. Con loro un cronista d’eccezione, Edmondo De Amicis (1846-1908), che raccontò quel viaggio in un libro poco noto, ma straordinario, “Sull’Oceano”, pubblicato nel 1890. Ideato insieme al famosissimo “Cuore”, inseparabile compagno di scuola e modello di virtù per generazioni di italiani, segnò l’adesione ufficiale di “Edmondo De Languori” – come lo chiamava ironicamente Carducci – al socialismo.
Subito dopo iniziò a scrivere il suo testamento politico, “Primo maggio”, che uscirà postumo nel 1980. “Ho tutto da perdere e nulla da guadagnare – diceva De Amicis a proposito di quel romanzo – scrivendo il libro che ho in corpo. Ma bisogna che lo scriva per non perdere la stima di me stesso”. Giornalista affermato, visitò la Spagna, l’Olanda, il Marocco, Londra, Parigi, Costantinopoli e ne trasse succosi “reportage”. “Sull’Oceano” – che doveva chiamarsi “I nostri contadini in America” – è piuttosto un “blog”, un contenitore di impressioni.
“Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora, e il bastimento continuava a insaccar miseria: una processione interminabile di gente che usciva a gruppi dall’edificio dirimpetto, dove un delegato della Questura esaminava i passaporti. La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno”. La nave portava milleseicento passeggeri di terza classe, di cui più di quattrocento tra donne e bambini. Si aggiungevano le classi di riguardo e il settore riservato agli animali. “La maggior parte degli emigranti, come sempre, provenivano dall’Italia alta, e otto su dieci dalla campagna. (…)
C’erano dei suonatori d’arpa e di violino della Basilicata e dell’Abruzzo, e di quei famosi calderai, che vanno a far sonare la loro incudine in tutte le parti del mondo. Delle province meridionali i più erano pecorari e caprari del litorale dell’Adriatico, particolarmente della terra di Barletta, e molti ‘cafoni’ di quel di Catanzaro e di Cosenza” . Ben presto il gusto per il bozzetto, la vena descrittiva e divertita prendono il sopravvento. Ma resta il documento umano.
Ecco la “ragazza bolognese, una specie di donna-cannone”, la signora “decaduta” finita in terza classe, il “vecchio toscano, che avrebbe voluto iniziare la rivoluzione sociale sulla nave e predicava contro i signori di poppa”, il giovane scrivano innamorato (anche se sulla nave era rigida la separazione dei sessi), il contrabbandiere “piccolo e secco, con un gran ciuffo nero sopra la fronte”, i bambini malati, una “signora bionda dalle calze nere, svizzera italiana, una amabilissima persona, buona come il pane, un cervello di passero, bella e ignorante”, un “signore biondo slavato che si sospettava che fosse un ladro fuggitivo” (e invece era un ministro in incognito). Poi la folla senza nome degli operai e dei contadini.
“I contadini – scrive De Amicis – sono embrioni di borghesi. Il ventre, la borsa. Nemmeno l’ideale della redenzione della loro classe. Ciascuno vorrebbe veder più miserabili tutti, pur di campar lui meglio di prima”. Il comandante della nave, severissimo in fatto di morale, “avendo scoperto una sera che due passeggieri di diverso sesso, non legati né dal codice né dalla chiesa, erano addormentati in un camerino di coperta, aveva fatto inchiodare un grand’asse a traverso all’uscio, e ce l’aveva lasciato fino a che i due, il dì seguente, morsi dalla fame, dopo aver picchiato furiosamente, erano stati costretti ad uscire davanti a tutti, mezzi morti dalla vergogna”.
Un presepio, di tipo particolare: “In un cantuccio di prua, formato da una stia di tacchini e da una grossa botte, s’era fatto il covo una famiglia di cinque persone, che vi passavan la giornata, pigiate e appiccicate fra sé e alle pareti in modo da far pensare che non si fossero ficcati là che per gioco. Era una famiglia di contadini, dei dintorni di Mestre: marito e moglie ancor giovani: lei incinta avanzata; due gemelli maschi di sei anni, e una ragazzina di nove, che aveva il capo fasciato. Questa faceva la calza, sul davanti, e i marmocchi biondi erano imprigionati fra le gambe del padre, che fumava la pipa, con le spalle al parapetto, porgendo un braccio alla moglie, che gli rimendava la manica. Poveri, ma puliti: sei visi che spiravano una cert’aria di bontà e di rassegnazione serena”. Quando la traversata volge a termine, la morale della storia: “Riandando rapidamente a quel viaggio di ventidue giorni, mi pareva davvero d’essere vissuto in un mondo a parte, il quale, riproducendo in piccolo gli avvenimenti e le passioni dell’universo, m’avesse agevolato e chiarito il giudizio intorno agli uomini e alla vita. Molta tristezza, molte brutture, molte colpe; ma assai più miserie e dolori.
La maggior parte delle creature umane è più infelice che malvagia e soffre di più di quella che faccia soffrire. Dopo aver bene odiato e sprezzato gli uomini, senz’altro frutto che di amareggiarci la vita e d’inasprire intorno a noi la malvagità, noi ritorniamo all’unico sentimento sapiente ed utile, che è quello d’una grande pietà per tutti; dalla quale, a poco a poco, gli altri affetti buoni e fecondi rinascono, confortati dalla santa speranza che, nonostante le contrarie apparenze passeggiere, l’immenso peso dei dolori scemi lentamente nel mondo, e l’anima umana migliori”.
Non sapevo che De Amicis avesse scritto ”L’OCEANO”
Mi piace averlo e mi metto subito alla ricerca.
Mi piace moltissimo questa storia dei migranti ITALIANI. Uno spaccato di passato in cui mi piacerebbe essere vissuto.