Seconda puntata
L’autrice Maria Angela Vanni
Nata a Castellalto, vive a Campli. Ha insegnato nella scuola primaria ed ha un profondo interesse per l’ambiente e il sociale, quindi “stupenda maestra ” per i suoi alunni. Ha avuto ,alle spalle, anche l’esperienza politica. E’ stata assessore e vice sindaco di Campli. Ama la poesia , ad un concorso ha vinto il primo premio. Pubblicheremo settimanalmente più pezzi del suo “Io ho vissuto la coda del medioevo” edito da “EDITPRESS EDIZIONI” , EURO 12,00 e leggendo i brani capiremo il perché di quel titolo. Maria Angela in questo secondo capitolo ci racconta, dei divertimenti dei bimbi.
Giochi e giocattoli anni ’50
Attualmente i miei nipoti potrebbero aprire un negozio di giocattoli usati come quasi tutti i bambini, addirittura noto che, in occasione del Natale e dei compleanni, i regali neanche li scartano tutti.
Io che ho avuto un solo giocattolo, lo ricordo bene. Oggi capisco che tanta parsimonia era legata a un fatto culturale, più che economico. In fondo, a me non è mancato mai nulla, perché farmi soffrire tanto per un giocattolo?
Quante insistenze, quanti pianti per farmi comprare un galletto! Quante emozioni, quante fantasie mentre ci giocavo! Quanto dolore e quanta delusione quando si ruppe! Era un galletto di gesso bianco con delle sfumature celesti sulle ali. Me lo comprò mio padre a una fiera in una bancarella. Per giocarci, mi rifugiavo in soffitta, l’unico luogo in cui potevo essere in intimità con lui. Potevo parlargli, cantargli la ninna nanna ogni volta che lo lasciavo. Ricordo l’odore acre di quel luogo. Lì c’erano le cassepanche della nonna, piene di vestiti che odoravano di stantio; li aveva rimandati una zia di mia madre dall’America, durante la guerra. C’erano delle scarpe da donna con dei tacconi spessi.
Quella moda, poi, arrivò da noi negli anni settanta. In quella soffitta coccolavo il mio galletto che facevo dormire in una scatola di scarpe su un morbido lettuccio che gli avevo preparato con la lana delle pecore contenuta in un sacco di iuta appeso a una trave. Un brutto giorno mi cadde dalle mani e si ruppe una zampa. Piansi tanto, mi disperai e poi presi lui e la zampetta e mi rivolsi a mio zio che la riattaccò con la pece. In un primo momento tirai un sospiro di sollievo, ma presto mi resi conto che con la sua mutilazione si erano infranti anche i miei sogni. Il galletto non era più lo stesso per me, avevo paura di fargli male o che si rompesse di nuovo. Insomma, piano piano lo abbandonai nel suo lettuccio, lassù in quella soffitta dove non misi più piede.
Ci tornai qualche anno dopo, ma non aprii la scatola: ormai avevo circa dieci anni; ero andata per misurare i vestiti americani che mi piacevano di più e a provare quelle scarpe con i tacconi alti. Non ero più una bambina, cominciavo a sentirmi una ragazzina che iniziava a coltivare altri sogni, altre illusioni, altre speranze.
Tornando ai tempi del galletto, non avevo mai desiderato una bambola prima che mia cugina ne avesse una vera, bellissima, di plastica. Indossava un vestitino a fiorellini e calzava delle scarpette bianche. A me era concesso solo guardarla, raramente mi ci faceva giocare. Fu allora che provai invidia nei suoi confronti; in quella circostanza si rivelò molto possessiva. Oltre alla bambola aveva anche una cucina economica con un polletto arrosto nel forno. Questi giocattoli glieli regalava una zia che viveva in Toscana. Desideravo così tanto una bambola mia, che ogni tanto mi procuravo pezze colorate, ago, filo e forbici, andavo in un vecchio locale abbandonato e con le mie manine incerte cercavo di modellarla, ma spesso restavo delusa: l’ago non voleva entrare in certi tipi di stoffa, il filo si spezzava o se ne usciva dall’ago. L’impresa più difficile era quella di modellare la testa, si formavano delle grinze nella stoffa o se ne uscivano delle pezze dall’interno e dovevo ricominciare daccapo. Attaccare poi questa al corpo era un altro ostacolo al di sopra delle mie capacità. I vestiti non mi uscivano così belli come li avevo immaginati, l’opera realizzata era inferiore alle aspettative e al progetto iniziale che mi ero proposta. Che mortificazione! Comunque era, pur sempre, una mia creatura a cui preparavo le pappe, la cullavo, coccolavo, riempivo di baci. Per lei tutte le carezze che non ricevevo dai miei genitori.
Mio padre era un uomo pragmatico, intelligente, sarcastico, non propenso alle manifestazioni di affetto. Non ricordo un bacio, una carezza, di cui avevo fame e sete.
L’espressione massima della paternità la esprimeva nel raccontarmi favole e fiabe fantastiche; in questo era insuperabile. Qualche rara volta mi prendeva sulle ginocchia per fare trotta trotta cavallina o altre cose simili.
Mia madre (foto a lato), invece, per l’educazione ricevuta, baciare, abbracciare, e accarezzare i figli era un segno di debolezza di cui i bambini potevano approfittare. Questo le avevano insegnato. L’unico bacetto sfuggente, appena sfiorato sulla fronte, me lo dava alla sera quando ero già a letto. Io fingevo di dormire in attesa di quel momento. Al bacio seguiva l’invidia che mi faceva, segnandomi delicatamente la fronte.
A Casemolino, i giochi di gruppo erano collocati nel fiume Tordino. Noi bambini seguivamo le nostre mamme che andavano a lavare la biancheria o a “curare” (sbiancare al sole) lunghi rotoli di panno grezzo e scuro, tessuto in casa. Cucendo tre ferze insieme si otteneva un lenzuolo. Alcune mamme preparavano così il corredo per le figlie. Io vedevo il mondo meraviglioso, fantastico. Io e i miei compagni facevamo lunghe passeggiate nel corso d’acqua tra i pesciolini che guizzavano sui nostri piedi e che sfuggivano come saette dalle nostre mani. Nelle giornate più calde facevamo anche il bagno e scagliavamo i sassi per vedere i cerchi concentrici e la profondità dell’acqua che era limpida e scorreva sui sassi bianchi. Mi divertivo a cercare i sassolini bianchi e rossi, che per me diventavano pezzetti di prosciutto. Modellavamo con la creta servizi di piatti, bicchieri e tazzine che servivano a consumare i nostri finti pranzi usando i suddetti sassolini bianchi e rossi, i biscotti e altre pietanze che avevamo modellato con la creta.
Non c’erano ancora le fabbriche che scaricavano inquinanti chimici nelle acque, si vedeva dal gran numero di pesci, rane e anguille che guizzavano tra i gorghi. Il mio terrore erano le bisce, che, seppure innocue, mi impressionavano molto più dei ranocchi. Più tardi, da grande, mi resi conto che i depuratori allora non c’erano e che noi inconsapevolmente ci tuffavamo dove, a monte, l’ospedale di Teramo scaricava i rifiuti liquidi. Per fortuna la mia mamma si metteva a lavare nei rivoli che riaffioravano dalle sottocorrenti dove l’acqua si depurava di più, filtrata dai sassi e dalla sabbia.
Il fiume era il nostro mondo. I ragazzi più grandi costruivano delle capanne con frasche e pezzi di legno rilasciati dalle piene precedenti.
Lavandaie
Le donne, mentre facevano le vernecchie [i pettegolezzi], inginocchiate su un lenzuolo ripiegato più volte, insaponavano i panni, con pezzi di sapone fatto in casa, su grandi pietre piatte e prima di sciacquarli, li mettevano a sbiancare al sole. Terminati i lavaggi, in due torcevano i capi più grandi e li mettevano ad asciugare sui cespugli.
Arrivava l’ora di tornare a casa; le nostre mamme arrotolavano uno sparone (strofinaccio) facevano la spara, una ciambella che mettevano in testa sotto il cesto per evitare il dolore e avere maggiore equilibrio. Durante il tragitto si percorreva un bel tratto lungo il letto del fiume. Io amavo andare scalza, anche se la mamma era contraria. I miei piedini si fondevano e si legavano fortemente alle sensazioni che percepivo al contatto col suolo. Certe volte provavo sollievo passando sulla creta o sulla sabbia, un massaggio piacevole sulle pietre tondeggianti, dolore sulle cose ispide e acuminate. L’alternarsi di freddo, caldo, piacere, dolore era per me delizioso.
Respiravo con la terra, con il cielo, con il sole, in quel mondo semplice, sereno, senza ansie e senza angosce. Lungo la strada, a fare da corollario al nostro tempo lento, c’era il concerto ritmico, quasi terapeutico delle grasselle (raganelle) a cui rispondevano le numerose e invisibili cicale. In prossimità di un ruscello le rane, immobili ai margini dell’acqua, mimetizzate sull’erba, mi guardavano indifferenti aspettando la preda; poi, improvvisamente, con un salto sparivano nell’acqua. Oggi nel Tordino questa ricca fauna è sparita, grazie ai danni irreversibili che abbiamo fatto negli ultimi 50 anni.
Se sposto la mia infanzia a Garrufo e cerco nella galleria dei ricordi, trovo altri quadri e altri colori. Erano giochi semplici, fatti di scoperte e stupori che la natura ci offriva. Noi bambine giocavamo a “m’ama, non m’ama”, staccando i petali delle margherite oppure sfilavamo le spighette di forasacco e, gettandole contro i vestiti, quelle che restavano attaccate indicavano gli sposi che avevamo.
Invece eravamo spietati con gli animaletti. La fine più macabra era riservata alle fegee (la “phegea amata” [foto a lato]), farfalle nere con i puntini bianchi dal corpo lungo e affusolato. Ormai da quando vengono usati i pesticidi in agricoltura, sono sparite, ne rividi alcune parecchi anni fa alle Gole del Salinello in occasione di un’escursione con i miei alunni. Il rito orrendo che di solito facevano i maschi, prevedeva la cattura delle fegee dette “preddacchiule”, così chiamate volgarmente perché somiglianti a un prete. Dicendo: “Preddacchiule, preddacchiule, dice la messa a chiule a chiule; o sennò te mure”(Pretino, pretino, di’ la messa compostamente; altrimenti muori), infilzavano il corpo della povera farfalla con uno stecchino. L’animaletto martoriato sbatteva le ali, questo per i ragazzi significava che stesse dicendo la messa, perché era simile al prete che gesticolava con le braccia aperte mentre diceva la messa. Veramente raccapricciante!
Altri animaletti destinati al sacrificio erano le lucciole. Quando, la sera, i campi si riempivano del loro firmamento illuminandoli a giorno insieme alle stelle, il nostro inqualificabile divertimento era quello di prenderne alcune, di strusciarle con forza sui vestiti, per vedere la scia di luce che lasciavano per un attimo. Non basta, ci accanivamo anche a distruggere i formicai, quelle collinette di terra fine costruite con tanto lavoro dalle infaticabili formichine.
Un altro atroce, orrido martirio era riservato al maggiolino (la cetonia aurea [foto a lato]): si legava la zampina al malcapitato e si faceva ballare; in realtà l’animaletto si districava per liberarsi dalle nostre grinfie. Ora so perché noi bambini eravamo così spietati senza sapere di esserlo: semplicemente perché era un fatto culturale. Spesso vedevamo scannare conigli e agnelli, tirare il collo ai polli e alle papere, una volta all’anno scannare i maiali, vedere catturare gli uccelli con le tagliole o con altri metodi da brivido. Quasi in ogni casa c’era un cacciatore, spesso si vedevano per i campi, portavano sulle spalle quasi come bottini di guerra lepri, fagiani e altro. Per questo ciò che rappresentava la normalità per gli adulti lo era anche per noi.
Un’usanza molto bella che desta in me tenerezza e nostalgia era il rito delle “comari a fiori”. Le bambine e le ragazze il giorno di San Giovanni diventavano comari a fiori con le amiche più strette. Era un rito tutto al femminile. Il ventiquattro giugno, giorno di San Giovanni, due ragazzine molto amiche, si davano la mano, e dicevano «Cumpare e cummare, / nce dicème mai male; / e se male ce dicème / a l’imberne ce ne jème; / ma se bene ce vulème / l’une e l’addre rispettème; / e pe’ segne de rispette / dìnghe a te ’stu ramajètte.»().
Si scambiavano un mazzolino di fiori e dei regalini: anellini, spille, braccialettini, quasi tutti acquistati nelle bancarelle, in occasione dei pellegrinaggi a San Gabriele. Questo rito coinvolgeva anche le mamme delle piccole comari.
Il giorno di San Giovanni una delle due mamme donava all’altra “Lu ramajètte” (foto pagina precedente), un mazzolino di fiori di campo, dentro un piccolo canestro, con dei doni: biscotti, formaggini di cioccolato, fermagli e altre piccole cose. Il dono veniva ricambiato dall’altra mamma il giorno di San Pietro e Paolo. Era un patto di amicizia, che sarebbe durato per tutta la vita.
I ragazzi, invece, facevano le gare con la ruia (ruzzola). Ogni squadra era composta da due, tre o quattro ragazzi. Ognuno aveva una ruzzola spessa circa 3 cm, tagliata in un piccolo tronco; chi riusciva a farla rotolare più lontano, vinceva una pizza di formaggio. Mi dicevano gli zii che precedentemente si giocava con le pizze di cacio molto secche per evitare che si spaccassero lungo il rotolamento. Il giocatore che andava più lontano vinceva tutte le pizze.
Un altro gioco era quello della corsa con i carretti di legno costruiti dai ragazzi. La corsa si effettuava su strade in discesa, in cui ogni tanto venivano posti degli ostacoli che inducevano i conduttori a fare curve improvvise.
Durante l’inverno, dopo forti nevicate, i ragazzi riempivano i sacchi di iuta con paglia o fieno e si recavano nelle zone in pendenza e brulle, mettendosi a cavalcioni su queste slitte improvvisate, scendevano giù come saette.
Giochi semplici e giocattoli costruiti in casa e realizzati al momento; ma era proprio questa capacità di creare, inventare, costruire, arrangiarci e certe volte soffrire, che ci faceva volare, ingegnare, sognare ed essere, infine, in grado di fortificarci e prepararci ad affrontare, senza timori, la vita.