Conosciamo l’autrice di “Io ho vissuto la coda del medioevo” edito da “EDITPRESS EDIZIONI” , EURO 12,00
Maria Angela Vanni è nata a Castellalto e vive a Campli. Ha insegnato nella scuola primaria ed ha un profondo interesse per l’ambiente e il sociale, quindi “stupenda maestra ” per i suoi alunni. Ha avuto ,alle spalle, anche l’esperienza politica. E’ stata assessore e vice sindaco di Campli. Ama la poesia , ad un concorso ha vinto il primo premio. Pubblicheremo settimanalmente più pezzi del suo e leggendo i brani capiremo il perché di quel titolo. Maria Angela con questo primo capitolo ci racconta:
Il capitolo che proponiamo ci porta in piccoli borghi. L’autrice scrive pagine di un tempo che non tornerà più. Senza conoscerci ci siamo incontrati in un piccolo paese diventato oggi un “museo” senza abitanti.Si chiama Valle Piola, una frazione di Torricella Sicura. La scrittrice “ha scritto” , il giornalista “ha girato”. Vi propongo il bel racconto per parole e il mio racconto per immagini insieme al collega Ermanno Prosperi. Se vuoi vedere prima il filmato clicca qui
I maestri anni ’50
I miei zii, agli inizi del loro percorso lavorativo, insegnavano in montagna nei paesi ormai abbandonati o semi abbandonati di Valle Castellana, Torricella, Castelli.
Potrei citare mille episodi che sentivo raccontare o che ho vissuto direttamente da bambina. Spesso nella bella stagione, a volte, gli zii mi portavano con loro per alcuni giorni a Valle Piola o a Poggio Valle. Ci sono tornata di recente, avendo nostalgia di quei luoghi. Sono arrivata in auto senza difficoltà, entrambi i paesi si possono raggiungere facilmente da Torricella, la strada è quasi tutta asfaltata.
Valle Piola (oggi)
Devo dire che sono rimasta delusa nel vedere Valle Piola disabitata (foto sopra),la chiesa transennata per il terremoto, le scalinate esterne delle case piene di erbacce. La natura si è ripresa i suoi spazi. Appena fuori dal paese sono state costruite stalle in lamiera: segno che l’arrivo della strada rotabile e della così detta civiltà ha tolto tutta la poesia e il fascino a un mondo incontaminato, quasi inaccessibile. L’unica nota di vita e di continuità sul filo dei miei ricordi, rimasto uguale, il canto della fontana anch’essa soffocata dalle erbacce. Che tristezza, vedere le finestre chiuse o penzolanti con i vetri rotti!… le stesse che avevano dato luce, donato gioia e cartoline con panorami mozzafiato a tante generazioni.
Poggio Valle invece è ancora abitata, ordinata. Le case sono state ristrutturate, molte nuove. Sono rimasta sorpresa nel vedere al posto dei muli e dei cavalli tante macchine parcheggiate. Se non avessi ritrovato come punto di riferimento la fontana, avrei pensato di non esserci mai stata.
Entrambe le nuove situazioni mi hanno fatto pentire di esserci tornata. Allora non c’erano strade rotabili, ma solo viottoli e mulattiere. Dal versante camplese si poteva arrivare con le auto a Pietrastretta su strada bianca passando per Roiano di Campli e poi si scendeva a piedi tutto il fianco della montagna, attraverso uno stretto tratturo appena segnato e poco praticato. L’altra via d’accesso a questi paesi era una mulattiera, percorribile a piedi o a dorso di mulo, che portava a Torricella. Per questa ragione lo zio Mimì e la zia Rita affittavano una casa e abitavano lì per quasi tutto l’anno. Io e mio fratello in particolar modo, avendo il maestro in casa, restavamo con loro per qualche tempo.
Ricordo la casa del signor Alfredo che ci ospitava, la gentilezza, la semplicità e la bontà della gente. C’era perfino il prete che abitava a Poggio Valle nella casa parrocchiale, vicino alla chiesa. Spesso il prete e mio zio passavano molto tempo a parlare del più e del meno. Delle loro chiacchierate ricordo solo una frase del prete che mi stupì e mi meravigliò molto per l’idea che allora avevo io dei preti: «Eh!, caro maestro, la coscienza è come la pelle dei coglioni: più la tiri, più s’allunga!».
Questa frase la ricordo e per diversi giorni mi lambiccai il cervello per cercare di capirne il significato: non avrei mai pensato che un prete dicesse delle volgarità.
La gente di Poggio Valle, pur nella miseria, faceva a gara nel regalare al maestro il formaggio, la ricotta, la “quaiata” (cagliata), le uova.
Provo a chiudere gli occhi e penso all’incanto di quei luoghi. All’arrivo ci accoglieva il gorgoglio della fontana pubblica e le donne al lavatoio. Ricordo le bevute di acqua fresca e cristallina che usciva perennemente dalla cannella. La fontana, non essendoci la piazza, era anche il luogo d’incontro della gente. Fungevano da panchine il lungo lavatoio, qualche pezzo di tronco, un grosso sasso scivolato dal pendio della montagna. Silenzio assoluto, rotto solo dal belato delle pecore, dal canto degli uccelli, dal latrato lontano dei cani, dal fischio di qualche pastore, dallo scalpitio di qualche asino o cavallo della zona.
Ecco, se avessi una bacchetta magica, cancellerei le strade rotabili costruite successivamente, ricollocherei case, strade, vie così com’erano e vorrei vivere lì, specie in questo periodo di pandemia. In quei luoghi sicuramente le parole distanziamento, mascherine, sanificazione, virus, non avrebbero fatto parte dell’attuale vocabolario.
Mio zio Armando, quando io avevo quattro cinque anni, insegnò per alcuni anni tra Macchia da Sole e Macchia da Borea; non mi portò mai con lui perché andava tutte le mattine a piedi, raramente a cavallo. Doveva percorrere circa venti chilometri a piedi, perciò partiva da casa all’alba, per essere puntuale all’entrata a scuola. Nei periodi invernali, con la neve, portava con sé la pistola, per timore di imbattersi nei lupi e la pila per illuminare il cammino. Una mattina mi accorsi della sua partenza, incominciai a piangere e a urlare con tutto il fiato che avevo. Lui, come detto, era il mio faro, il mio punto di riferimento nella grande famiglia di mio nonno. Lo chiamavo “Cò”, perché era anche il mio compare di battesimo.
Gli altri zii in casa nell’assistere alla mia disperazione ridevano. Questo loro atteggiamento metteva benzina sul fuoco, gridavo ancora di più. Il mio adorato “zio Cò” – che ormai era giunto a Guazzano, circa a due chilometri da casa – mi sentì, tornò indietro, salì le scale di corsa, mi prese tra le braccia, mi coccolò, io mi riaddormentai e lui riprese la strada per Macchia da Sole.
Un anno in cui nevicava spesso, chiese ai genitori se poteva riportare a casa i loro figli, offrendo scuola, vitto e alloggio. Queste cose all’epoca si facevano anche all’insaputa dei dirigenti che allora si chiamavano direttori. I bambini di Macchia passarono un paio di mesi a Garrufo. Una mia collega anziana, all’inizio della mia carriera di insegnante, mi mostrò una foto: era lei che scendeva dall’autobus a Valle Castellana. Aveva in testa l’imbottita legata con una corda e tra le mani due borse. Si accingeva a recarsi a piedi a Prevenisco, dove aveva affittato una casetta per passarvi l’inverno.
Facevano davvero molti sacrifici allora i maestri e le maestre. C’era anche chi prendeva questo lavoro con leggerezza e lo considerò tale fino alla pensione.
Un collega anziano, persona molto buona, molto ricca e generosa, ma che non amava l’insegnamento ci raccontava che lui in un anno era andato a Bèfaro di Castelli diciassette volte, era sicuro del numero dei giorni perché aveva un bastone e ogni volta che andava ci faceva una tacca. Aveva raggiunto un tacito accordo con i genitori ai quali faceva comodo avere i figli in casa da mandare a pascolare le pecore. Il maestro, in cambio del silenzio, regalava cassette di liquori. Era proprietario di uno dei bar più famosi e antichi di Corso San Giorgio a Teramo. Addirittura un anno si nominò all’insaputa del direttore un supplente in cambio dello stipendio.
Questo è un caso poco virtuoso, ma è un fatto realmente accaduto. Di solito tutti lavoravano con coscienza e abnegazione, con grandi sacrifici.
La mamma di una mia carissima amica, Anna Cialini, maestra dolcissima che non c’è più, negli anni cinquanta, insegnava a volte a Bèfaro di Castelli e altre a Basto di Valle Castellana. A Basto, dormiva e mangiava a casa di “zà Rosa”, una specie di pensione improvvisata. Per raggiungere Bèfaro, a piedi, doveva guadare un fiume. Ogni anno a dorso di mulo trasportava, aiutata dal marito, il letto, il materasso, i vestiti che le sarebbero serviti durante l’anno scolastico. Sistemava il letto in una stanzetta attigua all’aula e lì dormiva e passava il tempo extra scolastico insieme a qualche altra collega. Le aule venivano riscaldate da stufe a legna che spesso più che riscaldare facevano fumo. Ovviamente i servizi igienici si svolgevano nelle stalle, nelle stesse stalle dove a volte intirizzite dal freddo dei rigidi inverni di allora, le maestre andavano a riscaldarsi.
A Bèfaro – mi racconta la figlia Elisa – la mamma mangiava alla mensa scolastica con i bambini; mi sono stupita nel sentire che in un mondo così arcaico e difficilmente raggiungibile ci fosse la mensa. Una volta al mese tornava a casa e ogni volta era un’avventura: infatti doveva affrontare un lungo tratto a piedi tra mulattiere e sentieri scoscesi pieni di pericoli e insidie.
Le maestre ripartivano insieme da Bèfaro e si proteggevano e aiutavano a vicenda; ma alcune volte, invece, Anna durante il percorso era sola e terrorizzata da mille cose, tra queste i serpenti e le vipere, di cui erano pieni i viottoli. Lei, per farli allontanare prima del suo passaggio, faceva suonare continuamente un campanellino che portava con sé.
A Casemolino di Castellalto, dove ho frequentato la prima e la seconda elementare, la situazione non era tanto diversa per le maestre. Il problema era sempre lo stesso: la mancanza di viabilità. La mia maestra, Italia Binchi, per raggiungere Casemolino, da Sant’Atto, dove scendeva dal pullman, doveva percorrere una strada interrata non più larga di un paio di metri piuttosto solitaria e inquietante, tra gli alberi e le siepi. Il percorso a piedi di circa due chilometri prevedeva anche l’attraversamento del fiume Tordino, che all’epoca aveva una portata d’acqua importante in tutte le stagioni. Spesso le piene primaverili erano paurose, l’acqua usciva dagli argini inondando i terreni coltivati e arrecando gravi danni all’agricoltura. Nella norma l’acqua scorreva lungo il suo letto in un’unica portata.
Nei periodi particolarmente piovosi si formavano dei rivoli facilmente attraversabili, passando su grossi sassi appositamente sistemati dagli uomini di Casemolino.
La portata grande invece si attraversava passando su una lunga traballante passerella di legno con tanto di passamano, ancorata ai gabbioni e ai pali conficcati sul letto. Quasi ogni anno la gente di Casemolino la ricostruiva a causa delle piene che la portavano via. Nei periodi in cui quasi tutto il letto era invaso dall’acqua, mio padre calzava gli stivaloni, andava sull’altra sponda, caricava la maestra sulle spalle e guadava il fiume. Se poi questa operazione era rischiosa, andava a prenderla col carro trainato dalle mucche, ripetendo la stessa operazione all’uscita da scuola.
In tutte queste peripezie la maestra, che per me era un mito, mi sembrava bellissima, non dimenticava mai di mettere il rossetto rosso fiamma. Raggiunta la scuola non trovava un confortevole edificio scolastico ma un’aula ubicata nella casa di “Tresina” (Teresina), al secondo piano dell’edificio, tra camere da letto e altre stanze. Dall’aula partiva un grande scalone di legno che portava al piano superiore. L’aula era ampia e molto fredda, riscaldata da una stufa a legna che spesso faceva fumo a causa della legna verde e bagnata. La maestra ci mandava a turno a scaldare le manine intirizzite e violacee; spesso il contrasto improvviso freddo-caldo mi provocava un dolore incredibile. Stavo zitta, pensavo capitasse solo a me. I servizi igienici non esistevano e si andava all’aperto dietro i cespugli o nella stalla più vicina, di solito quella “de lu Gatto”.
La maestra invece aveva dei privilegi: ogni tanto saliva sullo scalone di legno; era segno che doveva espletare i suoi bisogni fisiologici nel “renaro” (pitale), vaso da notte bianco smaltato. Noi bambini tutti zitti ci mettevamo in ascolto con i nostri sorrisetti complici per sentire il gorgogliare della pipì nel vaso. Si sentiva ogni minimo rumore perché il solaio era di legno, scricchiolava anche mentre la maestra camminava.
Passarono vent’anni; attraversammo i mitici anni sessanta: le maestre iniziarono a toccare con mano i progressivi miglioramenti dovuti alla costruzione di strade e di edifici scolastici. Con lo spopolamento sparirono le scuole in quasi tutte le frazioni di montagna. Nel frattempo io diventai insegnante di ruolo e all’inizio degli anni ’70 anch’io andai a Basto di Valle Castellana. Ormai la strada carrabile, anche se bianca, raggiungeva il paese. Tutte le mattine, con la mia 126, dopo un viaggio lungo e pericoloso tra neve, strade bianche o asfaltate, piene di buche, arrivavo a Basto. Sono stata l’ultima insegnante di quella piccola frazione.
La scuola, un’unica aula senza servizi igienici, era ubicata in una piccolissima casetta al piano terra con una finestrella esposta a sud, da cui si vedevano solo boschi e montagne. Prima di essere utilizzata come aula era stata una cucina; in un angolo c’era il camino tappato con un foglio di masonite per non far entrare l’aria fredda. Ogni mattina mi aspettavano cinque meravigliosi bambini frequentanti quattro classi. Nel lungo inverno ci scaldavamo con una piccola stufa a legna. A primavera e nelle giornate calde andavamo ad apprendere nel vasto meraviglioso, ricco mondo della natura che ci circondava.
1974: un anno scolastico meraviglioso; ero accolta con rispetto e gentilezza da tutta la gente rimasta. Iniziava lo spopolamento, chi poteva si trasferiva in Ascoli Piceno. Tutte le mattine i bambini mi portavano una grande stozza: pane fatto in casa con porcini, gustose frittate con la cipolla e la ricotta, salsicce, ventricina e prosciutto.
L’anno successivo riscesi a valle, incominciai a insegnare negli edifici scolastici che furono costruiti in tutte le frazioni nei primi anni settanta: finalmente i servizi igienici; anche se le fonti di riscaldamento, in molti casi, erano ancora le stufe a legna. Queste comodità tuttavia mi facevano spesso rimpiangere altre cose che avevo perso: il calore della gente, la semplicità, l’apprezzamento delle piccole cose, perfino le difficoltà e le privazioni.