La Festa della Santissima Trinità
di Angelo Panzone
Nel giorno della Santissima Trinità, a Bisenti, fino ai primi anni cinquanta, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo venivano onorati dalla cittadinanza con un lungo corteo formato da diversi stuoli di fedeli, che manifestavano la propria devozione per i diversi Santi venerati dalla comunità parrocchiale: fra un nutrito lancio di fiori campestri sfilavano in processione tutti i sacri simulacri custoditi nella chiesa madre del paese, ai quali si univano anche quelli custoditi da alcune famiglie nelle proprie abitazioni e quelli di Sant’Antonio Abate e di San Pietro Apostolo, prelevati la sera prima dalle omonime chiesette di campagna situate rispettivamente alla confluenza del torrente Fossato con il Fiume Fino e sulla collina che si erge al di sopra della cava di pietra della Montagnola.
Il solenne corteo, aperto da una meravigliosa croce processionale in argento risalente alla metà del 1500, vedeva sfilare su un vero e proprio tappeto di petali decine e decine di statue che, considerata l’importanza dell’evento, venivano spesso anche addobbate con nastri, fiori e persino gioielli. Il sacro corteo era chiuso dal Santo Patrono di Bisenti, San Pasquale Baylon, e dalla Madonna degli Angeli, titolare della basilica principale del paese.
La statua di San Pasquale Baylon veniva preparata dalla famiglia di Gaetano Valente, ai più noto come “Caitène Taccòne”, che peraltro organizzava anche la tradizionale festa patronale del 17 maggio. La statua della Madonna degli Angeli invece veniva addobbata con candide trine di colore bianco dai procuratori dei festeggiamenti del 2 agosto.
La statua di Sant’Antonio Abate, con il maialino ai piedi e il bastone pastorale in mano, veniva portata a spalle dai deputati della festa organizzata ogni anno, il 17 gennaio, in onore del santo “eremita”. In occasione della processione della Trinità i ferventi devoti di Sant’Antonio Abate, tra i quali sicuramente spiccavano Candeloro Scocchia, detto “Cannilòre di Pizzichète”, e Gaetano Piccirilli, detto “Caitène di Ciustòne”, indossavano la tradizionale tunica bianca con mozzetta rossa, riservata ai membri del comitato organizzatore della festa del 17 gennaio.
Sant’Antonio Abate è ritenuto il patrono degli animali domestici e per questo motivo, nel corso della processione, il caratteristico tintinnio della campanella appesa al bastone pastorale veniva di sovente sopraffatto dai versi degli animali che i fedeli sottoponevano alla benedizione del santo.
Per la festa della Trinità, molti inoltre erano i fedeli che si affidavano alla Madonna del Rosario e si univano in preghiera, accodandosi in file ordinate alla bellissima statua della Vergine effigiata in atto di donare ai fedeli la corona del rosario.
Il culto della Madonna del Rosario, basata sulla meditazione e contemplazione dei Misteri della vita della Vergine e di Cristo, a Bisenti fu alimentata soprattutto dalla famiglia Ranalli e principalmente da Donna Umiltà, consorte di Don Fifì, la quale si occupava di decorare la statua prima della processione.
Nel corteo della Santissima Trinità la statua della Madonna del Rosario era preceduta dal Priore della Confraternita e dagli associati alla congregazione, che per l’occasione indossavano la tipica veste e l’elegante mantellina di colore celeste impreziosita da un ricamo del Santissimo Sacramento.
Alla processione della Santissima Trinità partecipavano parecchi altri simulacri: la statua di Sant’Antonio di Padova, venerato dalla famiglia di Gino Cardone, era preceduta da bambini con un giglio in mano, mentre la statua della Madonna della Libera, di proprietà della famiglia di Tommaso De Carolis, soprannominato “Cucciunìtte”, era ammirata per la meravigliosa veste turchese. Molto suggestiva era l’effigie di San Francesco d’Assisi che, venerato dalla famiglia di Felice De Carolis, era raffigurato ai piedi della croce con le mani tese verso Gesù Cristo.
La famiglia di Don Roberto De Carolis invece si curava degli omaggi resi a Santa Lucia, mentre la famiglia di Umberto Di Vincenzo organizzava il corteo dei fedeli che nella processione intendevano onorare la Madonna Addolorata.
La statua di San Pietro Apostolo veniva portata in processione dagli abitanti dell’omonima contrada, mentre i cacciatori si stringevano intorno a San Rocco, sicuramente affascinati dal fido cane ai piedi del Santo.
Le ragazze in cerca del “principe azzurro” invece sfilavano innanzi alla Madonna del Divino Amore, alla quale sperando in un improbabile miracolo in genere si aggregava anche uno stuolo di zitelle.
Il santo più bistrattato era senz’altro San Francesco da Paola: reperire quattro volontari che lo portassero a spalla era una vera e propria impresa. Questa reticenza probabilmente era dovuta al fatto che la statua raffigurante il Santo calabrese, dal punto di vista estetico, lasciava un po’ a desiderare perché indossava un saio di tela grezza ed, essendo particolarmente alta, appariva piuttosto sproporzionata rispetto a quelle che sono le normali fattezze umane. Addirittura, i più irriverenti, a causa della scarsa consistenza e leggerezza di questa statua, ribattezzarono il Santo con il nomignolo di “San Francìsche di la pàje”.
Di ben altra fortuna godeva invece San Luigi Gonzaga il quale, protettore dei giovani, attirava le attenzioni dei festosi ragazzi in periodo di pubertà. La statua di San Luigi Gonzaga, a differenza di quella di San Francesco da Paola, appariva molto aggraziata e minuta nella figura ed inoltre risultava anche ben più massiccia e pesante. A tal proposito, infatti, si racconta che una volta la statua di San Luigi Gonzaga cadde sul piede del malcapitato Abate De Flaviis, mentre quest’ultimo si apprestava ad esporla di lato all’altare per l’adorazione dei fedeli e che, per l’atroce dolore provato, il reverendo esclamò: “San Luì, sì còrte e malicavète!”.
Tra tutti i santi che sfilavano alla processione della Santissima Trinità, sicuramente lo sguardo dei fanciulli accompagnava a lungo la statua di Sant’Emidio per il modellino, che il Santo teneva sul palmo della mano, raffigurante un abbozzo panoramico del paese, ma tuttavia i ragazzi erano ugualmente incantati dalla statua di San Vincenzo per la trombetta posta in bocca ad un angioletto; un giorno, mentre il Santo prima di rientrare in chiesa sostava in piazza per la benedizione ai fedeli, quella trombetta squillò tra le labbra di un bambino, Titino di “Puppòne”, che lo aveva furtivamente carpito dalle mani dell’angelo pochi istanti prima: fu quello un breve momento di felicità per un povero fanciullo che, per le terribili ristrettezze economiche di quei tempi, di balocchi forse non aveva conosciuto che la “ruzzola” e, a Natale, una “pupa” di fichi secchi.