Noi oggi completamente sordi a quello che raccontavano, della guerra, i ragazzi del ’99

Premessa . Mi scrive Angelo

“Ti mando uno scritto che fa capire come il genere umano non metabolizzi gli errori del passato: i nostri nonni avevano sperimentato l’assurdità della guerra, ma noi non abbiamo fatto tesoro delle atrocità che loro ci hanno raccontato e siamo ancora qui a farci del male e per che cosa? Per avere una briciola in più del nostro simile, senza capire che il senso dell’esistenza non è in quelle briciole ma in valori molto più preziosi.

di Angelo Panzone

Il 24 maggio del 1915 l’Italia entrò in guerra contro l’Austria e la Germania: fino a quel momento il Partito Socialista Italiano, i liberali Giolittiani e i Cattolici avevano difeso con fermezza la necessità della neutralità, ma alla lunga prevalse la linea interventista dei Nazionalisti che, appoggiati dal Re Vittorio Emanuele III e dal Capo del Governo Salandra, fecero in modo di aderire al conflitto.

Come avvenne in altre zone del Regno d’Italia, anche a Bisenti i Nazionalisti organizzarono manifestazioni per propagandare la necessità di assicurare all’Italia un’estensione dei confini territoriali che avrebbe consentito alla nazione di affermarsi come potenza internazionale.

La gran parte dei bisentini, in verità, era spaventata dall’idea di dovere affrontare la guerra e le drammatiche conseguenze, in termini di miseria e di lutti, che essa avrebbe comportato ma, nonostante questo terrore fosse abbastanza diffuso tra la gente, la propaganda dei Nazionalisti riuscì ad entusiasmare numerosi giovani che si arruolarono, alcuni anche con i gradi di ufficiale, convinti di dover offrire il proprio contributo alla Patria.

Di questi ragazzi partiti verso il fronte, molti caddero feriti mortalmente dal fuoco nemico e, tra quelli che riuscirono a tornare nella terra natìa, parecchi furono decorati per meriti militari.

Tra i bisentini insigniti con onorificenze si ricordano Pasquale Barone, già medaglia d’argento nella guerra di Libia, Nicola Di Muzio con ben due medaglie di bronzo al valor militare, Nicola De Carolis con medaglia di bronzo e menzione di merito, Mario Lupinetti con croce di guerra.

Nei primi combattimenti le truppe italiane capeggiate dal generale Cadorna, pur pagando un elevato prezzo in vite umane, riuscirono a conquistare alcune postazioni strategicamente molto importanti, tra le quali il Monte Nero. Inoltre, nel maggio del 1916, dopo aver subito un’avanzata degli Austriaci fino ad Asiago, il generale Cadorna raccolse le forze ed attaccò lungo l’Isonzo conquistando Gorizia.

Tra i valorosi ragazzi agli ordini di Cadorna vi era anche il bisentino Umberto Mattucci, poeta dialettale, arruolato nel corpo dei Granatieri di Sardegna. Mentre le truppe si muovevano verso il fronte dell’Isonzo, Umberto Mattucci trovò il tempo e soprattutto la forza di scrivere una lettera all’amico Pasquale Scocchia, ai più noto come “Pasqualìne di Liònze”.

Questa epistola scritta, come si confà ad un poeta, in versi, rappresenta un eccezionale documento storico in quanto costituisce una vera e propria testimonianza delle sensazioni vissute dai soldati al fronte. Dal componimento traspare infatti la nostalgia per l’amico lontano e per le loro sbicchierate:


Traduzione:

Càre cumpàre, siccome la prumòsse chi ti facìve, all’ùne, dòpe la mezzanòtte, sta lòttere ti scrìve; immèce di “scrìve” t’avòje da dìce “ti scrùve”, pi lu fròdde chi fa, stìnghe facènne li chiùve. A st’òre, di lu vìne tì m’arfaciòsse nu bbicchìre, pùre a te nu salùte gròsse da lu Granatìre.

Caro compare, nel rispetto della promessa che ti feci, all’una, dopo la mezzanotte, questa lettera ti scrivo; invece di “scrìve” dovevo dire “ti scrùve”, per il freddo che fa, sto facendo i chiodi. A quest’ora, del tuo vino mi rifarei un bicchiere, anche a te un saluto grosso dal Granatiere.

La nostalgia e i ricordi però lasciano lo spazio a considerazioni sull’assurdità della guerra e all’amarezza per la misera ricompensa – una semplice medaglia – offerta in cambio dei duri sacrifici fatti per la Patria:


Traduzione:

Dùva mi tròve è nu brutt’affère, piccò li suldète di Cìcco Pèppe sìmpre spère. Si fùsse li fucìle e nin fùsse li cannùne nu nin faciassème ètre chi rattàrce li cujùne. Inzòmme, sta guèrre è proprie nu disàstre: c’armène all’ùtime ’arpòrte la midàje nchì lu nnàstre. Va bbòne chi di midàje tròppe e tròppe n’ha dète, ma tùtte quìnte li padrùne chi è mùrte e chi suttirrète. Cèrte, a purtà la midàje è nà frèche bbèlle però, cumbà, pi pijrle ci s’armòtte la pèlle.

Dove mi trovo è un brutt’affare, perché i soldati di Francesco Giuseppe sparano. Se fossero i fucili e non fossero i cannoni noi non faremmo altro che grattarceli. Insomma, questa guerra è proprio un disastro: chi rimane in ultimo riporta la medaglia con il nastro. Va bene che di medaglie ne hanno date fin troppe, ma tutti quanti i padroni sono morti o sotterrati. Certo, a portare la medaglia è molto bello però, compare, per prenderla ci si rimette la pelle.

L’atmosfera di tristezza tuttavia viene magistralmente dissolta dal desiderio improvviso di raccontare all’amico un aneddoto curioso riguardante il figlio di “Fabbricone” e dalla voglia di rivivere magicamente quelle belle giornate trascorse insieme a parlare e, perché no, spettegolare gioiosamente sui conoscenti:


Traduzione:

Ci stòje na vòte na famìje: nu marìte, na màmme e nu fìje. S’ammèle la màmme a lu fìle di la schìne e lu mètiche j urdinò di fàrse li lavatìne. Stù sirvìzie lu marìte da fà jè l’avòje là a lu bbùsce dùva faciòje li cròje. Scòrte la pruvvìste, sciò pi truvà da magnà pirciò a lu fìje stu sirvìzie s’arcummannò a fàrsi fà. Infàtte, la màmme chiamò lu fìje la matìne e j dìsse: “Pìje la pumpòtte e fàmme lu lavatìne”. Pijò lu strumènte e la màmme si mittò ‘n pusiziòne. Attìnte ca mò finìsce lu fàtte di lu fìje di Fabbricòne. “Ah Mà, stèce ddù bbùsce: dùve l’hàje da mòtte?” “A quòlle di sòpre, nòne a quòlle di sòtte”. “Ah, mò vulòje dìce chi ci stà lu bùsce chi è cchiù mèle, si ère a quòlle di sòtte ci si putòje abbuccà nu vucchèle”. Scùsime si sti fìtte scandalùse ti so rcuntète, ma vìnghice di ràzze: sò lu fìje di lu Frète. N’ètra vòte t’arcònte lu fàtte di lu Cinquicènte, chi pi lu rìte ti da mmandinò lu vèntre.

C‘era una volta una famiglia: un marito, una mamma e un figlio. Si ammala la mamma alla schiena e il medico gli ordinò di farsi delle “lavatine”. Questo servizio lo doveva fare il marito nel buco dove faceva le scoregge. Finita la provvista, uscì per trovare da mangiare per cui si raccomandò al figlio di fargli il servizio. Infatti, la mamma al mattino chiamò il figlio e gli disse: “Prendi la pompetta e fa l’intervento”. Prese lo strumento e la mamma si mise in posizione. Attento,che termina il fatto del figlio di “Fabbricone”. “Mamma, ci sono due buchi: dove la devo mettere?” “In quello di sopra, non in quello di sotto”. “Ah, volevo dire: c’è un buco più scabroso, se era quello di sotto ci si poteva versare un boccale”. Scusami se questi fatti scandalosi ti ho raccontato, ma è una cosa ereditaria: sono il figlio del “Frate”. La prossima volta ti racconto il fatto di Cinquecento, e per le risate dovrai mantenerti la pancia.

L’ilarità di questo aneddoto ha spazzato definitivamente la malinconia e così Umberto Mattucci si congeda dall’amico con ironia, indicandogli l’indirizzo in maniera decisamente spiritosa:


Traduzione:

Tìnghe na cachète ‘npìzze ‘npìzze sòtte trùve l’indirìzze; pi caccià lu làtte la vàcche si mògne: Cumànde di Brighète Granatìre di Sardègne; pi la purcèlle ci vò lu vèrre, lu paòse: la zòne di huèrre; ècche, a li centèsime j’òme chième li “sghéi”, salùtime pùre la tua faméje.

Mi scappa di andare di corpo sotto trovi l’indirizzo; per ricavare il latte la vacca si munge: Comando di Brigata Granatieri di Sardegna; per la porcella ci vuole il verro, il paese: la zona di guerra; qui, i centesimi si chiamano “sghéi”, salutami anche la tua famiglia.

I primi faticosi successi riportati dagli uomini di Cadorna furono vanificati quando nell’ottobre del 1917 le truppe tedesche sfondarono impetuosamente le linee italiane a Caporetto e si spinsero fino al Piave, travolgendo ogni resistenza.

La disfatta di Caporetto comunque suscitò negli italiani un unanime desiderio di reazione: il generale Cadorna, sostituito dal generale Diaz, venne rimosso dal comando delle forze armate e tutto il paese si impegnò a sostenere un ulteriore sforzo militare.

Sulle ali di questo rinnovato spirito patriottico, a Bisenti furono parecchi i ragazzi chiamati dal distretto militare per il reclutamento e per la successiva traduzione al fronte dove l’entusiasmo di questi giovani che, con riferimento alla classe di nascita passarono alla storia con l’appellativo di “ragazzi del ‘99”, avrebbe dovuto dar man forte ai soldati oramai stanchi e psicologicamente logorati. Nell’ambito di questa campagna di reclutamento fu convocato al distretto un gruppo di sette–otto ragazzi di Bisenti; al termine della visita medica, quei giovani bisentini risultarono tutti “abili ed arruolati” e così furono ammessi al colloquio con il Capitano che provvide ad acquisire da ognuno di loro informazioni sulle rispettive professionalità ed attitudini: risultarono tutti contadini fuorché uno, un tale “’Ndògne di Ciappìtte”, che invece era falegname.

A quei tempi, i contadini non avendo la possibilità di frequentare la scuola erano tutti pressoché analfabeti, mentre gli artigiani, se non altro per motivi legati al praticantato del mestiere, le cognizioni più elementari le sapevano. Ritenendo dunque che il falegname, in quel gruppetto, rappresentasse la figura più qualificata, il Capitano lo chiamò da parte e gli annunciò: “Tu farai il capo drappello e il tuo compito sarà quello di condurre i tuoi compagni d’armi alla caserma di addestramento di Verona”.

Antonio, in verità, conoscendo i propri limiti, si dimostrò piuttosto titubante per l’incarico affidatogli, ma la disciplina militare impone che gli ordini vadano rispettati con diligenza e quindi, anche se malvolentieri, fu costretto ad accettare la responsabilità che il superiore gli aveva conferito. E cosi, quella squadra di “matricole” partì da Bisenti con destinazione Verona.

Arrivati alla scalo ferroviario di Giulianova, il gruppo di reclute, agli ordini di Antonio, salì a bordo del primo treno che si fermò in stazione: nessuno di loro però si rese conto di aver preso un convoglio diretto verso il Sud Italia. Il capo drappello, tuttavia, anche se a stento, un po’ sapeva leggere e così, dopo qualche ora di viaggio, scrutando un cartellone segnaletico, intuì che erano arrivati a Bari.


Sperando che gli altri non si fossero accorti di nulla, avvertì i compagni di viaggio che era giunto il momento di scendere da quel treno per prendere una coincidenza. I ragazzi che erano ai suoi ordini non sapevano leggere per cui non avevano capito che Antonio stava attuando uno stratagemma per riparare al suo errore. I giovani militari dunque salirono diligentemente su un altro treno che, viaggiando in direzione opposta, li riportò al punto di partenza.

Giunti nuovamente a Giulianova, il capo drappello allo scopo di prendere questa volta il treno giusto fece presente ai suoi sottoposti che bisognava cambiare ancora per un’ultima volta e i ragazzi, ancora ignari di quanto era successo, eseguirono disciplinatamente gli ordini.

Le reclute salirono dunque sul treno che, stando alle indicazioni del capo drappello li avrebbe finalmente condotto a Verona, ma dopo appena mezz’ora di viaggio uno dei componenti del gruppo si permise di osservare: “Oh ‘Ndò, mi sèmbre chi stòme a Tèreme: si vòde la cchìse di la Madònne di li Gràzie!”. Antonio, allora, rendendosi conto che aveva di nuovo sbagliato a prendere il treno diretto a Verona, timoroso che si potesse scoprire l’imbroglio, con autorevolezza apostrofò il ragazzo: “Ma stàtte zitte, tu chi nin capisce nìnte: è ddù jùrne chi viaggiòme, come faciòme a truvàrce ancòre a Tèreme!

2 commenti

  1. Luigi Laguardia

    Rimango stupito ogni volta,complimenti grandissimi ad Angelo,ma dove trova tutto questo? Sicuramente il lavoro di Lido nel conservare la memoria di molti fatti lo ha aiutato e l’aiuta.Due grandi uomini,lui è suo padre.Ndonie di Ciappette ho avuto il piacere di conoscerlo e me lo ricordo bene,una preghiera per lui e tutti i ragazzi del 99 ,che hanno combattuto per noi.

  2. Umberto Mattucci “vola alto” nonostante le incredibili sofferenze, trovando il modo e la forza di rivolgersi al caro amico addirittura in versi.
    Grazie, Angelo, per diffondere questo tipo di messaggi che rispecchiano l’autentico significato della vita: l’Amore e il Sacrificio.

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