Lamberto De Carolis

Settima e ultima puntata

di Angelo Panzone

…… UN CANTORE DI ALTA ISPIRAZIONE

Il giorno stesso in cui morì, alcuni amici di Lamberto De Carolis ritrovarono sulla scrivania del suo studio alcune poesie inedite, ancora profumate ed umide dell’inchiostro della sua stilografica, quasi certamente scritte non molto tempo prima di morire. In questi componimenti, di intensità lirica impressionante, Lamberto De Carolis, come si riscontra in tutti i più grandi poeti, si rivela un vero e proprio “vate”, un cantore di “alta” ispirazione, che profeticamente percepisce sensazioni e presagi e li svela esternandoli in versi. Da questi sonetti inediti, infatti, traspare che il poeta bisentino avverte di essere alla fine della sua esistenza terrena e il poeta lo esprime a chiare lettere; nella poesia intitolata “Lu sole”, ad esempio, per manifestare il drammatico presentimento, senza fare inutili giri di parole, esordisce direttamente con questi versi di sconcertante crudezza:

N’avaste che mi mitte ddù cuscine

  pe’ farme aripijà nu po’ di fiate,

  la morte mi la sente da vicine,

  jnotte tutte l’ore so’ cuntate …

E dello stesso triste segno premonitore parla anche nel sonetto intitolato “Quatrine e vicchiaje”, un’altra delle poesie inedite ritrovate subito dopo la sua morte, nella quale alcuni versi recitano:

… mi s’à ‘ffullate ‘n cocce li pinzire,

      pinzire che la morte ‘n’è luntane …

Tuttavia, rispetto a quanto avviene in “Lu sole”, nei cui versi il poeta dà la chiara impressione di parlare a titolo personale, in “Quatrine e vicchiaje” l’argomento viene affrontato con un tono decisamente scanzonato e meno tendente al lirismo in quanto queste parole vengono proferite per bocca di un artigiano che, divertendosi a scambiare delle battute con il proprio apprendista, quasi a voler esorcizzare il pensiero della morte, fa un bilancio della sua esistenza con l’intenzione di persuadere il ragazzo del fatto che nella vita bisogna apprezzare le piccole gioie quotidiane ed evitare rinunce e privazioni perché prima o poi si scompare dalla scena di questo mondo e tutto ciò che si è realizzato con sacrificio non serve più a nulla.

La consapevolezza dell’approssimarsi della morte, che egli svela così apertamente nelle sue ultime poesie, però non contamina affatto i versi di tristezza in quanto questa presa di coscienza matura nel poeta in simbiosi con un toccante accostamento alla fede religiosa.

La speranza nel Signore, infatti, allontana l’inquietudine e fa in modo di effondere una pacata serenità che pervade fortemente la trama poetica. Nella poesia “Lu sole”, ad esempio, dopo aver tratteggiato le angosciose sofferenze che tormentano un uomo che percepisce di essere vicino al trapasso, il poeta dissolve la mestizia con la descrizione del sollievo provato all’alba quando, allo spuntare del sole, l’Onnipotente torna a dispensare al Creato il “fuoco dell’amore”:

Ah! Lu sole è lu foche di l’amore

  che dà rispire e gioje a lu crijate

  e di bellezze l’ucchie ti culore.

  Quanne però tant’anne so’ passate

  è sguarde di Ddì, sguarde che rincore!

L’esigenza di rivolgersi a Dio è così forte che, in un’altra delle poesie inedite venute alla luce dopo la sua morte, intitolata “Si fa sere …”, il poeta bisentino, così come si fa nei confronti di un amico, indirizza all’Altissimo una lettera:

Signore Ddì,

  quanta passe so’ date,

  pe’ strate e campagne,

  pe’ valle da vùre,

  pe’ terre a sulagne!

Chi lo ha conosciuto, considerata l’impronta istintiva e il carattere prorompente che lo contraddistinguevano, probabilmente di lui conserva il ricordo di un uomo poco incline al sentimento dello Spirito. Ma in realtà, le cose non stanno in questi termini, in quanto da una lettura attenta delle sue opere, già a partire da quelle “giovanili”, si osserva che, nonostante un’indole spiccatamente analitica, ha sempre perpetrato un grande sforzo per spiegare il reale, oltre che razionalmente, anche alla luce della Fede la quale, in effetti, nella sua produzione letteraria costituisce spesso uno strumento di conoscenza che gli apre un orizzonte di giudizio sul mondo.

Ad ogni modo, come traspare da alcuni versi della poesia “Si fa sere …”, sembra quasi che Lamberto De Carolis sia convinto di non aver adoperato a sufficienza questo “strumento di conoscenza”, ritenendo addirittura di averlo a volte ripudiato e contraddetto con il pensiero:

… c’avesse na vote soltante,

      soltante na vote pinzate

      che Tu, Signore Ddì,

      mi dive l’acque e li fiure,

      la jerve fì’ cresce e li piante

E così, a chiusura di questo componimento che, essendo con ogni probabilità l’ultimo scritto di Lamberto De Carolis, idealmente conclude la sua esperienza letteraria, il poeta dopo aver riconosciuto la sua grave “mancanza” compie nei confronti del Padre Eterno un vero e proprio atto di penitenza e, confidando nel Suo Amore, sembra chiedere una benedizione per i suoi “figli”, volendo ricomprendere tra loro, oltre che i propri discendenti naturali, anche i tanti amici e collaboratori che nel tempo lo avevano stimato:

… Tu, Signore Ddì,

      …

      fì cresce, ‘mezze a stu monne,

      sti bella cìtila mi’ …

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