La poesia: Maria ricorda il gatto Felice

di MARIA MATANI

Occhi di giada

Occhi di giada, striati, screziati, lucenti,

con le pupille tonde o ridotte a fessure profonde,

tu mi guardi serio e non sai mentire.

Hai sostenuto il mio sguardo senza superbia,

tranquillo, grave per tante ore della vita mia,

restituito serenità e sempre alla fine

hai socchiuso i tuoi occhi e mi hai liberata.

Vai e sii felice, tu che lo sai cos’è la felicità,

così tante volte mi hai detto in un battito di ciglia

e io ancora non l’ho imparato.

 

Ricordo del gatto Felice

Mi ricordo che avevamo una età doppia di quel che astrattamente si definisce ragazzi, quando senza responsabilità alcuna prendemmo con noi un cucciolo di felino domestico e, eradicandolo da quello che era il suo ambiente naturale, così come mi era stato consegnato, dentro una scatola di cartone, l’abbiamo portato a chilometri di distanza e liberato sul luogo delle nostre scorribande, la riva di un fiume, aspettandoci peraltro che anche lui potesse gioire con noi della nostra pur sciocca felicità.

Felice lo chiamammo, forse per immortalare quel giorno, così tanto simile alla serie di giorni che a singhiozzi ci regalavamo, illudendoci di perpetrare una continuità inesistente. Cosa di sbagliato avesse fatto quel tenero cucciolo per essere messo a servizio della nostra superficialità, noi non ce lo siamo chiesti e sarebbe stato anomalo farlo, visto che il substrato di fatuità ci permeava, va da sé che, senza riflessione alcuna, lo abbiamo liberato sulle sponde del fiume e con noi lo abbiamo condotto in un attraversamento dello stesso fino a quando, impaurito, ha cacciato le unghie nella nostra carne, finendo con un tonfo nel bel mezzo della corrente. Magro, bagnato, è stato raccolto e coi nostri vestiti asciugato. Il suo primo viaggio con la sua nuova famiglia irregolare non era proprio regolare. Sul viaggio di ritorno l’ho tenuto avvinghiato a me e ad ogni curva era un miagolio di paura e un piccolo graffio ancora, poi, così come concordato, l’ho definitivamente a te affidato. 

Il cucciolo, inesperto del viaggiare sulle quattro ruote, senza più le mie mani contenitive, si perdeva ad ogni curva per poi ritrovarsi attaccato alle tue braccia, pancia e collo. Sarà stato faticoso per entrambi, lo ammetto; alfine lo hai portato in casa e non so bene con quale cena lo hai sfamato. Nei giorni a seguire forse hai intrapreso una specie di addomesticamento in quella che doveva essere la sua nuova casa, una specie di casa.

Forse sarà cresciuto, perché dopo mesi tutti i gatti crescono, fino a diventare quasi adulto e un bel giorno lo hai perso. Lo rivedevi a giorni alterni, lo riconoscevi dalla macchia che aveva sul muso, ma non rispondeva al tuo richiamo, non aveva accettato il suo nome, e come poteva? Felice, povero gatto, paradigma delle storie che si ripetono, che anticipano altre storie di esseri umani, inverosimilmente ingannevoli.

Felice inghiottito dal nulla, finito chissà dove, una esistenza stravolta dalla superficialità prima e dall’incuria poi. Felice che felice non lo è stato mai, Felice che ha perso la sua identità, Felice a cui non è stato riconosciuto il diritto all’identità, Felice dimenticato come un oggetto in un angolo buio della strada; Felice che è stato accarezzato solo un giorno, Felice che non voleva certo essere amato in quel modo insensato e irruento, Felice che non ha avuto la possibilità di amare come aveva sognato quando con gli occhi chiusi riposava nella sua cucciolata, beatamente, bevendo latte caldo dalla sua mamma. Felice preso e perso.

Un commento

  1. Associo il gatto ai tanti migranti dei nostri tempi, sradicati dai luoghi natii e sbattuti in un mondo che non li accoglie. Il nome Felice pare un ossimoro con la vita che il gatto ha condotto e il non riconoscersi in esso , forse, era normale, come i tanti Moammed Sceab di ungarettiana memoria, incapaci di vivere a Parigi ed anche nelle tende del deserto, ormai. I nostri migranti, purtroppo, sono così.

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