di Sonia Castellani
TERRY
Nonostante quella strana e lunga sequenza sismica, dormivo abbastanza serena. Credevo di conoscerlo…il terremoto. Me lo avevano raccontato i miei genitori e nel 1984 da adolescente lo avevo perfino vissuto, ma non ero mai stata consapevole della sua reale capacità distruttiva. “Il nostro è un territorio ballerino”: questo si diceva e questo bastava a semplificare una questione decisamente più complessa.
Quando nella notte di quel famoso 6 aprile arrivò la scossa, 23 lunghi secondi distrussero la vita di 309 persone, dei familiari superstiti e di una città, comprese le zone limitrofe. Decisamente più fortunati in periferia, riuscimmo a salvarci non essendoci stati crolli nella frazione dove vivevamo. La situazione fu chiara quando, seduta per terra senza scarpe e coi piedi in parte feriti dai vetri rotti caduti dalla libreria di casa, notai un polverone che saliva dal centro storico dell’Aquila. Ammetto di aver pianto senza ritegno e ho stretto a me i miei figli, bambini nel 2009. Due ore prima, alle 3.32 un boato simile a un ululato ci aveva svegliato: tutto attorno a noi cadeva, sembrava di essere in modalità centrifuga all’interno di una lavatrice.
Eravamo a casa nostra invece, al terzo piano. Scappare via con i bambini in braccio, intontiti dal sonno e dalla paura, ci fece arrivare in strada in pochissimo tempo. Le ore successive a quella terribile notte a oggi sono ricordi in parte traumatici: tra comunicazioni social vere o presunte, non capivamo cosa stesse effettivamente accadendo. Si cercava di riconquistare un minimo di lucidità mentale per decidere sul da farsi. Tornare su a casa, recuperare gli spazzolini da denti, qualche abito, qualche giocattolo: tutte cose normali e banali che però in certi momenti sembrano essere indispensabili.
Quando cominciarono ad arrivare notizie più dettagliate sul numero delle vittime e sulla distruzione dei miei luoghi del cuore, compresa la mia casa paterna, ebbi la prima vera presa di coscienza dei danni causati da un sisma rivelatosi così potente e la notte successiva, dopo una giornata assolata intervallata da continue scosse di assestamento, una marea di preoccupazioni iniziò a squarciarmi l’anima. Continuare a dormire in macchina nei giorni seguenti? Trovare un’alternativa? Soprattutto quale? Dopo un’iniziale indecisione, mi spostai con i miei tre figli verso una località marittima abruzzese, come la stragrande maggioranza degli aquilani. Seppur preoccupata e impaurita dalla tragedia delle ore precedenti, l’intenzione era comunque di tornare all’Aquila e “di rimanere il tempo strettamente necessario affinché tutto possa sistemarsi”.
In realtà il nostro soggiorno durò più di un mese e mezzo. Le nostre vite? Due parallele: parte della mia famiglia in città, noi quattro “esuli del terremoto”. La nuova quotidianità sgangherata era scandita dalla colazione, dal pranzo, dalla cena e dai ritmi delle lezioni scolastiche. Ghettizzati in una classe di soli bambini aquilani in una scuola pubblica dove li avevo iscritti per permettere loro di proseguire gli studi fino a giugno, i miei figli non potevano né pranzare né giocare con gli altri alunni negli spazi comuni, per decisione (le cui ragioni sono ancora a me sconosciute) dello stesso dirigente scolastico. Eravamo decisamente stanchi e stressati da uno stile di vita che non ci apparteneva, nonostante fossimo al sicuro e in gran parte tutelati dagli Enti locali.
Quando finalmente decidemmo di tornare all’Aquila, tra cumuli di macerie sparse ovunque, tra tracce di vita passata, tra i segni evidenti della tragedia toccai con mano quel dono inestimabile che è la solidarietà. Nelle famose tendopoli trovai un nuovo concetto di quartiere: una marea di tende blu montate per noi sfollati e “sinistrati” gestite dall’Esercito e dai volontari provenienti da ogni dove. L’inaugurazione della prima New-town e il conseguente smantellamento delle tendopoli nell’autunno del 2009, hanno segnato la fine dell’emergenza post terremoto e l’inizio di nuovi capitoli, spesso poco edificanti e gratificanti come la recente sentenza del tribunale dell’Aquila che ha riconosciuto il concorso di colpa delle vittime del crollo. In questi 14 anni la mia nuova vita è andata avanti.
Non sempre le parole sono sufficienti per raccontare tutto ciò che è accaduto dopo quel 6 aprile. E’ un insieme di emozioni che crescono a dismisura e che si fa di tutto per contenerle, per non rivivere un periodo così drammatico. Eppure lo abbiamo vissuto e siamo ancora qui a raccontarlo. Tra momenti di serenità e momenti di smarrimento, tra risate e pianti vivo la Ricostruzione dell’Aquila come la Ricostruzione a piccoli passi della mia quotidianità. Ogni miglioramento della città è anche un miglioramento per la mia persona, perché per tornare e rimanere devi davvero avere una simbiosi con la tua terra. Mai pentita della mia scelta: spesso ripenso a chi ho conosciuto, a chi mi ha teso la mano, ripenso alle storie spesso tristi che in tanti mi hanno raccontato. La memoria segue i miei ricordi come scatti fotografici: volti e momenti legati in maniera indissolubile. Non posso che considerarmi fortunata per avere avuto la voglia di tornare e per essere rimasta ferma nella mia decisione.
Sonia Castellani