di Giulia de Nigris

Dalla banchina arroventata dal sole si sprigionava un odore di nafta, un odore che ci piaceva tanto: era l’odore che precedeva la battuta di pesca sulla barca con papà.

Io e Valeria sedevamo con le gambe penzoloni a guardare l’andirivieni di papà, affaccendato negli ultimi preparativi prima della partenza dal porto. Accanto a noi tutta l’attrezzatura: canne di tutte le misure con tutti gli spessori di filo, dal più sottile per i pesci piccoli al più spesso per i pesci grandi, la valigetta degli ami e dei piombini e il terribile, nauseabondo secchio con la pastura, un tremendo miscuglio di pezzi di pesci morti da giorni, che fungevano da irresistibile richiamo per i pesci vivi da pescare più tardi.

Quando tutto era stato caricato a bordo, papà ci ordinava di tirare su i parabordi, dei salsicciotti bianchi che penzolavano fuori dal motoscafo per evitare l’urto con le barche vicine.

Qualche gabbiano solitario ci accompagnava fuori dal porto, mentre il motore prendeva velocità appena passata l’estremità del molo. L’accelerazione improvvisa ci faceva perdere l’equilibrio per cui papà si sincerava sempre che fossimo sedute e contemporaneamente ben aggrappate a qualcosa.

Iniziava così il nostro viaggio diretti verso quella riga blu dell’orizzonte che non si riesce mai a raggiungere.

Ora, il vento salato e gli spruzzi d’acqua ci schiaffeggiano. Urliamo stupidaggini a più non posso. Dobbiamo urlare per comunicare, perché il motore fa un rumore bestiale e il vento si porta via le parole non appena escono dalla bocca. Anche se siamo vicine, io non sento quello che grida Valeria: penso si sia fatta male al sedere, perché un’onda più grande ci ha fatto fare un balzo così forte che siamo rimaste a mezz’aria e poi siamo ricadute sul fondo della barca, che è fatto di legno e non è morbido affatto.

Una volta in mare aperto, le onde diventano meno ostinate e dispettose, l’andatura della barca si fa più regolare e il rumore del motore diventa una specie di cantilena mononota.

Roseto adesso, è una striscia verde sempre più sottile.

Dopo una mezz’ora di questa corsa, arriviamo nel punto ideale per la nostra battuta di pesca.

Io non ho ancora capito, dopo tanti anni, come faceva papà a trovare quel punto preciso, proprio quello lì, in mezzo a tutto quel blu. 

Dopo aver buttato l’ancora, ci disponiamo ad ascoltare attentamente gli ordini di papà e ad eseguire nel migliore dei modi tutti i suoi comandi. Non ci piaceva sentirlo imprecare mentre preparava le canne da pesca, anche se qualcosa succedeva sempre a fargli perdere la pazienza: un amo che cadeva sul fondo della barca o si infilava in un dito, un filo sottilissimo che si intrecciava inesorabilmente, la scatolina con i piombini più piccoli che si apriva e cadevano tutti, e così via…

Allestivamo un paio di canne più grandi dietro, con un pezzo di seppia come esca, per sedurre le verdesche; un paio di canne medie al centro, ai lati, per gli sgombri con un pezzo di sardina sfilettata alla perfezione, perché gli sgombri hanno gusti raffinati, e un altro paio di canne avanti, di quelle con il filo sottile. A volte, finite le canne, papà ci legava un filo a un dito, uno di quelli trasparenti leggerissimi, con i piombini minuscoli che non andavano a fondo. Così ci pescavamo le aguglie, un pesce stretto lungo e agile che arrivava fin sotto alla barca a curiosare, con due pinne a forma di ali ai lati del corpo e una testa lunghissima con una boccuccia piccola sulla punta. Spesso pescavamo un’aguglia dopo l’altra, perché le aguglie sono pesci ingenui.

La preda più ambita, manco a dirlo, erano gli sgombri, dei bellissimi grassi e rigati sgombri, maledettamente furbi, che pizzicavano l’esca e ti facevano credere di aver abboccato e invece… tiravi su la lenza vuota! 

Ma il più fesso e puzzolente era il suro, un pesce che voleva essere uno sgombro ma era solo una sua imitazione mal riuscita con tante spine e tante squame e una carne poco pregiata da mangiare.

E poi i suri si facevano pescare facilmente perché erano stupidi e ingordi e si lasciavano ingannare dalla sardina sfilettata sull’amo mentre i loro cugini sgombri se la ridevano sul fondo del mare con la pancia piena.

Accanto alla barca, ad attirare l’attenzione dei pesci stupidi e meno stupidi, veniva immerso il sacco a rete con il famoso triturato maleodorante della pastura.

Arriva la fame e…. i panini col salame e poi… giù sdraiate a guardare in alto, il cielo.

Sopra è tutto azzurro, sopra ancora ci sono le nuvole, leggere, trasparenti, morbide, bianche, sfilacciate, e sopra le nuvole? ancora azzurro e azzurro fino all’infinito, fino a quell’aereo piccolissimo che fa quella scia. Chissà dove sta andando?

Sotto invece è tutto blu, blu scuro, un universo liquido, buio, in movimento, misterioso, brulicante di vita, di pesci, di squali, di mostri… forse… di tutto quello che la nostra fantasia in quel momento è in grado di immaginare.

Un senso di inquietudine ci assale: noi siamo un puntino minuscolo in quello spazio infinito e spaventoso, eppure bellissimo e dolce.

Ci facciamo cullare ancora, è così bello. Ci lecchiamo i minuscoli cristalli di sale che si sono attaccati intorno alla peluria delle nostre labbra. Siamo tutte salate.

Nel secchio ci sono 8 suri, 5 aguglie e uno sgombro.

Li vediamo boccheggiare, ci fanno pena, ci si stringe il cuore. Li abbiamo uccisi per il nostro divertimento: è un pensiero che ci tormenta. 

Il cielo è viola e comincia a farsi buio. Le canne sono state tirate su ed è ora di tornare.

Guarda Valeria, è uscita una stellina e la luna… sembra una bocca che ride.

Si torna ad andatura lenta perché fa freddo ed è umido e perché è tutto così malinconico e bello e struggente. Non serve correre, la costa è lì ferma che ci attende con il profilo nero delle colline e la luce del sole che tramonta dietro. Si vedono ancora i raggi. E’ tutto rosso, rosso e viola. 

Non ci accorgiamo di tutta questa bellezza, perché siamo bambine e facciamo parte di questa bellezza. 

Solo adesso, a distanza di decenni, ne percepiamo lo stupore e la dolcezza, di quelle giornate belle, belle come tutte quelle passate e presenti e future, ancora insieme.

Un commento

  1. Rileggerlo e commuoversi di nuovo! Grazie!

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