Da una intervista di Lido Panzone a Francesco Valente del 1978
Con il fallimento della campagna di Russia, la potenza militare tedesca iniziò a sgretolarsi, mentre l’esercito anglo-americano, dopo aver debellato le truppe dell’Asse Roma-Berlino che occupavano l’Africa Settentrionale, puntando verso l’Italia, sbarcarono in Sicilia e iniziarono la risalita della penisola italiana per liberarla, con il valoroso ausilio dei Partigiani, dall’oppressione del regime fascista.
Nel frattempo Mussolini, sfiduciato dal Gran Consiglio del Fascismo, il 25 luglio del 1943 fu arrestato per ordine del Re: dopo 21 anni crollava la dittatura fascista.
L’8 settembre dello stesso anno l’Italia firmò l’armistizio ma, dopo qualche giorno, Mussolini, liberato da una formazione di paracadutisti tedeschi, fondò la Repubblica Sociale Italiana di Salò determinando una divisione dell’Italia in Regno del Sud, sostenuto dagli anglo-americani, e Repubblica di Salò, appoggiata dai nazisti tedeschi.
Con il crollo del regime fascista, la Germania da alleata era diventata nemica e così, per combattere i soprusi vendicativi attuati dai soldati tedeschi, ancora presenti in Italia, nei confronti dei cittadini italiani ritenuti rei di aver tradito l’alleanza tra il fascismo e il nazismo, gli esponenti della lotta antifascista fondarono il Comitato di Liberazione Nazionale che, invitando gli italiani alla lotta partigiana contro il fascismo, rappresentò il motore della Resistenza.
Anche a Bisenti i Partigiani misero in atto una tenace lotta in contrapposizione alle crudeli rappresaglie compiute dai tedeschi nei confronti della popolazione civile e, grazie al ricordo di alcuni testimoni che vissero in prima persona queste vicende, abbiamo ricostruito come si svolsero tali avvenimenti nella zona della Valle del Fino.
Riportiamo dunque il racconto di Francesco Valente, insegnante elementare, che all’epoca dei fatti, seppur giovanissimo, si unì ai partigiani locali dando il proprio contributo alla liberazione dal regime nazi-fascista. A lui abbiamo posto alcune domande.
Quali furono i motivi che ti spinsero ad intraprendere la lotta partigiana?
Per le strade di Bisenti circolavano molti soldati nazisti perché i tedeschi avevano realizzato nel nostro paese un grande forno dove facevano il pane da distribuire alle truppe sparse nel territorio abruzzese. Spesso accadeva che questi soldati si rendevano protagonisti di sgradevoli episodi di prepotenze nei confronti della popolazione civile e così, soprattutto nei giovani, maturava il desiderio di difendere i propri concittadini.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre quasi tutti i soldati dell’esercito italiano, presi alla sprovvista, cercarono di tornare a casa senza cadere nelle mani dei tedeschi. All’epoca anche io ero militare e mentre cercavo di tornare a Bisenti da Potenza incontrai due amici, Antonio Stella e Serafino Cavarocchi, che mi proposero di entrare a far parte delle loro formazioni partigiane e fui ben lieto di dare la mia adesione perché condividevo a pieno le loro idee.
In quale formazione hai militato?
La formazione in cui ho svolto la mia lotta partigiana faceva capo al Comando capeggiato da Armando Ammazzalorso che, rifugiato nelle montagne teramane, manteneva i contatti con tutti gli altri nuclei armati. In particolare, il raggruppamento locale a cui appartenevo era denominato “Valviano”, dal nome della località vicino a Bisenti in cui noi militanti ci incontravamo segretamente.
Il nostro raggruppamento era comandato dal brigadiere Aielli e da un tenente dell’Accademia Navale, di cui non ricordo il nome, che era figlio del Comandante del Distretto. I miei compagni, oltre ai già citati Antonio Stella, che oggi è giudice a Milano, e Serafino Cavarocchi, che oggi è ingegnere al Genio Civile di Teramo, furono Tito Pomponio, Raffaele De Carolis, Fedele Di Massimantonio e diversi altri giovani di Bisenti.
Hai mai avuto incontri con Renato Molinari?
Il Capitano Renato Molinari, trucidamene fucilato da un plotone di soldati nazisti, coordinava l’attività del raggruppamento “Valviano”. Io lo conoscevo ma non ho mai avuto modo di vederlo all’opera in interventi perché io non avevo un compito d’azione ma avevo la mansione di portare dei messaggi scritti su dei bigliettini dal Comandante del nostro raggruppamento alle formazioni del Bosco Martese dove appunto ho incontrato Molinari.
Qual era il tuo incarico nel raggruppamento “Valviano”?
Insieme a Fedele Di Massimantonio e a Antonio Stella, io ero addetto a fare il porta-ordini assicurando dunque la comunicazione tra il raggruppamento “Valviano” e le formazioni di Bosco Martese. Per raggiungere le montagne del teramano mi intrufolavo tra le botti caricate sui camion tedeschi che partivano da Bisenti per andare a prendere il vino ad Ascoli Piceno.
Come si concluse la sua esperienza di Partigiano?
La mia militanza terminò il 13 giugno del 1944. Nella notte tra il 12 e il 13 giugno, durante la ritirata dei tedeschi, mi recai con gli altri componenti del raggruppamento sul greto del fiume Fino per disinnescare gli esplosivi che i tedeschi avevano sistemato sotto il ponte di “Cazzìtto” allo scopo di farlo saltare in aria dopo il loro passaggio. L’operazione fu portata a termine con parziale successo visto che riuscimmo a salvare il ponte dalla distruzione ad eccezione di una arcata per la quale non potemmo evitare il crollo.
Passiamo adesso alla testimonianza di un altro appartenente al raggruppamento partigiano “Valviano”: Tito Pomponio. Anche a lui abbiamo formulato alcune domande.
Per quali motivi aderisti alla lotta partigiana?
Le ragioni che mi spinsero ad entrare a far parte del raggruppamento “Valviano” non furono certamente politiche in quanto all’epoca dei fatti ero un ragazzino: avevo appena 16 anni e, infastidito dai soprusi che i tedeschi mettevano in atto nei confronti di noi italiani, insieme ai miei amici coetanei Antonio De Carolis, soprannominato “Caruso”, Pasquale De Carolis ed Antonio Di Giampietro, decisi di collaborare con i partigiani di Bisenti.
Quali erano i tuoi compiti?
Nel raggruppamento “Valviano” svolgevo la mansione di porta-munizioni in quanto ero molto giovane e non potevo assolvere altri compiti di maggiore responsabilità. Una volta, il mio superiore Antonio Stella mi ordinò di consegnare un sacchetto di munizioni a dei Partigiani che si rifugiavano a Chioviano. Nell’assegnarmi questo incarico il Comandante Stella mi raccomandò di passare per il “Piano del Moro” dove però erano accampati i tedeschi in quanto, essendo più esperto di me, sapeva che se avessi cercato di percorrere strade diverse più nascoste avrei sicuramente destato il sospetto del nemico facendomi scoprire. Seguendo allora il consiglio del Comandante, passai con il sacchetto addosso attraverso l’accampamento tedesco del “Piano del Moro”: i tedeschi credendo che stavo facendo una passeggiata non mi perquisirono e così portai a termine la mia missione.
Puoi raccontare un’azione a cui hai partecipato personalmente?
Il fatto che sto per raccontare non si riferisce ad un’azione a cui ho preso parte, ma si tratta di un assalto a cui ho assistito. I miei compagni del raggruppamento “Valviano” avevano appreso che a Bisenti stavano arrivando dei soldati tedeschi per effettuare un rastrellamento di giovani e così, sulla strada tra Bisenti ed Appignano, tesero un’imboscata ai camion che trasportavano questi soldati. I mezzi tedeschi furono colpiti da alcune bombe a mano e subito dopo ci fu un conflitto a fuoco tra le due parti: nel buio della notte le pallottole traccianti sembravano dei fuochi d’artificio.
Ricordi qualche altro episodio?
Ad un paio di chilometri da Bisenti, nei pressi di Troiano, un tale Gaetano, da noi chiamato con il nome di battaglia “Pasqualone”, nel corso di una perlustrazione fermò con una pistola giocattolo un porta-ordini tedesco che procedeva in motocicletta. Pasqualone, uomo dal fisico possente, intimò l’alt al corriere e gli ordinò di cedergli la pistola e le munizioni. Il tedesco atterrito buttò a terra le armi e Pasqualone raccogliendole, nonostante fosse un armadio, dimostrò al nemico la sua generosità lasciandolo andare via senza fargli del male.
Dopo aver sentito la voce dei Partigiani, abbiamo voluto raccogliere anche la testimonianza di chi la violenza dei tedeschi la subì direttamente sulla propria pelle, pagandola a caro prezzo, con l’uccisione dei propri cari. Ascoltiamo dunque il racconto di Sabatino Degnitti, residente in contrada Collemarmo, al quale in una rappresaglia fu ammazzata la moglie peraltro anche in dolce attesa.
A Collemarmo i tedeschi, per ritorsione, fucilarono diverse persone. Quale fu il motivo che fece scattare la vendetta?
L’11 giugno del 1944 a casa di mio cognato Domenico Degnitti si presentarono due soldati tedeschi che dopo averlo terrorizzato, minacciandolo di ammazzare tutti i componenti della sua famiglia, gli chiesero da mangiare e da bere. Domenico, senza fiatare, obbedì agli ordini dei soldati e li fece accomodare a tavola. Nel frattempo, però, in casa sopraggiunsero due Partigiani, Ercole Di Girolamo, soprannominato “girasole”, e suo nipote Giovanni Marchionne, che erano alla ricerca dei due tedeschi perché questi erano stati protagonisti di diverse scorrerie in altre case della nostra contrada. Al loro arrivo, ebbe inizio un conflitto a fuoco in seguito al quale vennero uccisi i due tedeschi ma rimasero a terra anche il padrone di casa Domenico Degnitti, l’altro mio cognato Oreste Castiglione e Aristide Di Vincenzo.
In che modo si vendicarono i tedeschi per l’uccisione dei due soldati?
Il giorno dopo, cioè il 12 giugno, una pattuglia di soldati tedeschi stabilitasi a Scipione, dopo aver catturato in una zona vicino a Collemarmo il giovane Marino Saputelli, prelevandolo mentre stava pascolando le pecore, si portò nella nostra contrada per effettuare un rastrellamento nel corso del quale caddero prigionieri Giovanni Palusci e mia moglie Candida che aspettava un bambino. Prima del calar del sole furono fucilati tutti e tre.
Dopo aver vissuto questo tragico evento, hai più assistito ad ulteriori violenti atti di prepotenza compiuti da militari tedeschi?
Il 13 giugno, quindi il giorno successivo all’uccisione di mia moglie, i tedeschi tornarono nuovamente a Collemarmo, ma questa volta capimmo che stavano fuggendo in ritirata. Nonostante, però, avessero fretta di allontanarsi per non cadere nelle mani degli anglo-americani, trovarono il modo per trucidare mio nonno Gaetano Degnitti e per bruciare le case di Domenico Degnitti, Pasquale Biferi, Alessandro Biferi e Pasquale Piccirilli.
Riportiamo, infine, il toccante racconto di Vincenzo Scipione che ci riferisce di cosa accadde nella contrada Scipione e come si manifestò in questa zona la ritorsione dei tedeschi.
Quando arrivarono le prime squadre di soldati tedeschi in contrada Scipione?
I tedeschi si presentarono nella nostra contrada una mattina di fine maggio, in un polverone che non aveva fine. Il loro arrivo in realtà già ce lo aspettavamo da un momento all’altro ed eravamo tutti spaventati perché sapevamo che dovunque erano andati avevano fatto razzie ed avevano anche ucciso senza scrupoli chi si ribellava alle loro prepotenze. Per il timore di queste scorrerie, mio padre già da qualche giorno aveva deciso di nascondere la maggior parte del nostro bestiame trasferendolo in un fosso, il cosiddetto “fòsse di l’Imbèrne”, dove a turno andavamo a fare la guardia.
Come si comportavano questi soldati nei vostri confronti?
All’inizio i tedeschi che occupavano la nostra contrada sembravano buoni: alcuni di loro infatti per dimostrarci la propria disponibilità dicevano di essere prussiani, ma altri un po’ meno sensibili tornavano a spaventarci facendoci presente che presto sarebbero arrivati i tedeschi “veri” che erano molto più cattivi di loro.
In effetti, a distanza di qualche giorno dal loro arrivo, a casa di mio zio Domenico Scipione, che oggi vive negli Stati Uniti, si presentarono quattro tedeschi che, uno dopo l’altro, violentarono senza nessun ritegno mia cugina, allora appena quattordicenne, al cospetto dei genitori che terrorizzati venivano tenuti al muro sotto la minaccia di un mitra.
Ricordi degli episodi relativi ad atti di prepotenza compiuti nei vostri confronti?
Come dicevo prima, tutto sommato, i tedeschi che si erano stabiliti a Scipione in principio si dimostrarono abbastanza tranquilli: per esempio, a me, regalarono un bel paio di scarpe e mi “reclutarono” nelle loro fila mandandomi nei campi a falciare l’erba per i muli. Addirittura, mi ordinarono di mietere il grano che dalle nostre parti ad inizio del mese di giugno non è ancora maturo, anche se avevo cercato in tutti i modi di fargli cambiare idea facendogli notare che le spighe erano verdi.
Però, nonostante questa loro comprensione dei primi giorni, con il passare del tempo questi soldati divennero più severi e dovemmo sottostare a diverse molestie: si impossessavano infatti di tutto ciò che avevamo da mangiare, compreso quei pochi capi di bestiame che non avevamo nascosto, e spesso entravano nelle nostre cantine dove si divertivano a sparare contro le botti per bere il vino che sgorgava dai fori dei proiettili fino ad ubriacarsi.
Quale fu il vero motivo che scatenò nei tedeschi questo maggiore rigore?
A Scipione vi abitava Vincenzo Violante, un ex Carabiniere che di notte, in gran segreto, partecipava alle azioni intraprese per la liberazione dal regime nazi-fascista, senza che i tedeschi che si erano stabiliti nelle nostre case se ne fossero accorti. Un giorno, però, Vincenzo Violante fu sorpreso, mentre si apprestava a partire da Scipione per compiere una missione, con un mitra e delle bombe a mano addosso e così fu immediatamente rinchiuso insieme al cugino Alberino Violante e a Gaetano Scipione, che era piuttosto anziano, in una stalla che normalmente adoperavamo come ricovero per le galline. Da quel momento, Scipione fu definita “zona ribelle” e i tedeschi, divenuti molto più intolleranti, rinchiusero tutti gli abitanti della contrada, circa una cinquantina di persone, in una sola casa di appena due stanze, che oggi tra l’altro è di mia proprietà. Da quella “prigione” potevamo uscire soltanto noi giovani per governare i muli e per eseguire tutti gli altri lavori che i tedeschi ci ordinavano di svolgere, non più liberamente come prima, ma con il mitra puntato dietro la schiena.
Immaginiamo dunque che da quel momento cominciaste a temere per la vostra sorte …
Lo spavento era grandissimo anche perché a Collemarmo i partigiani avevano fatto fuori due tedeschi mentre disturbavano una famiglia e quindi avevamo paura che potessero vendicarsi su di noi. Però questo non avvenne perché i tedeschi, per questo episodio, decisero di rivalersi direttamente nei confronti degli abitanti di Collemarmo: infatti, il giorno dopo l’accaduto, una squadra di soldati partì dirigendosi verso Collemarmo dove, oltre le tre vittime che erano morte nel conflitto a fuoco del giorno precedente, ammazzarono altre quattro persone tra cui anche una donna incinta.
Comunque, continuavamo ad essere terrorizzati, perché la “legge” dei tedeschi prevedeva che dovevano essere fucilati dieci italiani per ogni tedesco ucciso e quindi temevano che, per i due soldati ammazzati a Collemarmo, tra noi fossero state scelte venti persone da giustiziare. E infatti, il comandante tedesco ci annunciò che intanto, per iniziare, dieci italiani li avrebbe voluti uccidere subito e quindi, tenendo conto delle sette persone che avevano ammazzato a Collemarmo, avrebbero fucilato i tre prigionieri di Scipione che erano detenuti nella mia stalletta delle galline.
Pertanto i tre prigionieri, ovvero Vicenzo Violante, Alberino Violante e Gaetano Scipione, furono trucidati?
Stranamente, i tre prigionieri destinati alla fucilazione furono portati a Bisenti dove i tedeschi avevano il Comando Generale di Zona. A Bisenti addirittura i tre prigionieri furono lasciati senza vigilanza: avrebbero potuto dunque approfittarne per fuggire ma non lo fecero perché pensarono che, se fossero scappati, i tedeschi per ripicca avrebbero ucciso tutti i loro familiari ancora tenuti sotto controllo a Scipione.
E cosa accade a voi, circa cinquanta persone di Scipione, rinchiusi in quelle due stanze?
I tedeschi ci obbligarono ad uscire fuori tutti insieme e, dopo averci portato su un campo a circa quaranta metri di distanza dalla casa dove eravamo detenuti, ci ordinarono di scavare una fossa. Iniziammo quindi a scavare e, siccome eravamo in tanti, in poco tempo la fossa diventò di dimensioni piuttosto enormi e così si scavava e si piangeva perché cominciammo a pensare che quella era la nostra tomba e che era arrivato il momento della nostra morte.
Improvvisamente però i tedeschi ci diedero l’ordine di fermarci e di metterci tutti ai bordi della fossa che avevamo scavato; quando ormai credevamo che per noi era finita vedemmo arrivare un mulo che potava in groppa due cadaveri con addosso ancora le uniformi dei tedeschi. Si trattava dei due soldati uccisi dai partigiani il giorno precedente a Collemarmo: due bei giovani, alti e biondi, di cui uno, a giudicare dai gradi applicati sulla divisa, doveva essere tenente.
Non appena il mulo si fermò, alcuni soldati ci imposero di mettere delle fascine di ceppi alla base della fossa e, dopo aver avvolto i due giovani con delle lenzuola bianche, ci fecero deporre i corpi nella fossa, mettere altre fascine sui cadaveri e infine ricoprire tutto con la terra.
Terminata questa cerimonia di tumulazione, i tedeschi ci invitarono a pregare per i loro due connazionali che avevamo appena seppellito: piangevamo con tutto il cuore, le lacrime sgorgavano dai nostri occhi come un fiume in piena e, per quanto ci disperavamo, i tedeschi si commossero, abbassarono i mitra ed iniziarono a piangere anche loro, compreso il comandante, che doveva essere un capitano o un colonnello, il quale inginocchiandosi a terra cominciò a singhiozzare.
La mattina successiva, il 13 giugno, giorno di Sant’Antonio, grazie al Padre Eterno, ci svegliammo e ci accorgemmo che i tedeschi se n’erano andati lasciandoci liberi.
I tre prigionieri invece che fine fecero?
L’ex Carabiniere Vincenzo Violante, il cugino Alberino Violante e Gaetano Scipione non furono liberati, ma tenuti in ostaggio dai tedeschi che li portarono con loro nella fuga da Bisenti che iniziò il 13 giugno e purtroppo li ammazzarono quando si trovavano a qualche chilometro da Scipione, nella località chiamata “la Castillàne”, in una curva sulla provinciale per Teramo, a circa trecento metri prima del bivio per Cermignano. Nel punto dove i tre furono freddati volemmo piantare tre croci di ferro che sono ancora oggi presenti a ricordo di questi tre “santi” uomini che quando erano reclusi a Bisenti rifiutarono di fuggire dalla loro prigionia per non causare ritorsioni su di noi che eravamo detenuti a Scipione.
Dopo la gioia della nostra liberazione, questo episodio molto doloroso rappresentò un fulmine a ciel sereno. Quando andammo a riprendere i cadaveri con un carro trainato da buoi, per consegnarli ai familiari, la scena che si presentò davanti ai nostri occhi fu davvero agghiacciante: Alberino Violante e Gaetano Scipione erano stati “semplicemente” fucilati mentre Vincenzo Violante, essendo ritenuto un eversivo per essere stato sorpreso con delle armi addosso, prima di essere ucciso fu seviziato al punto tale che non riconosceva nemmeno se fosse un essere umano.
Oggi, trascorsi oramai più di trent’anni, che ricordo porti di quei drammatici giorni?
Quella esperienza è difficile da dimenticare, ma quando mi tornano in mente quei momenti ringrazio Sant’Antonio per averci fatto il miracolo: secondo me infatti eravamo condannati ad una morte sicura e io penso che, con l’aiuto del Padre Eterno, la nostra salvezza fu dovuta al modo in cui piangevamo durante la sepoltura dei due giovani tedeschi. In realtà noi non piangevamo per i due tedeschi – certo ci dispiaceva anche per loro – ma ci disperavamo per la paura di essere trucidati.
Il giorno della nostra liberazione, il 13 giugno, si festeggia Sant’Antonio di Padova e così, a ricordo di questo miracolo, a Scipione abbiamo realizzato uno stendardo dedicato al Santo e ogni anno il 13 di giugno nella nostra contrada organizziamo una festa di ringraziamento per la grazia ricevuta.
(*) Le testimonianze riportate nel presente capitolo sono state registrate nel 1978 da Lido Panzone